È stato celebrato sottotono, in Israele, il cinquantesimo anniversario della Guerra dei sei giorni (5-10.6.’67), in cui l’esercito con la stella di Davide sconfisse e umiliò i suoi nemici arabi, Siria, Giordania e soprattutto Egitto (che perse la quasi totalità dei suoi 420 aerei militari durante la prima mattina di guerra, distrutti al suolo), strappando loro la penisola del Sinai, Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan. La consapevolezza che la minaccia esistenziale per lo Stato ebraico non è bandita neppure dopo 50 anni (sono cambiati alcuni nemici, ma ce ne sono ancora, e la questione palestinese resta irrisolta) e le incognite insite in uno status quo ricco di contraddizioni e potenziali conflitti, non inducono a grandi festeggiamenti. Sintetizzando un articolo dell’intellettuale ebraico-americano Yossi Klein Halevi sul «New York Times» (7.6.2017), la popolazione ebraica oscilla fra un sentimento di paura e vulnerabilità, come vissuto nel mese precedente la Guerra dei sei giorni, e quella fiducia nella vittoria che portò al trionfo militare in giugno. Israele è un paese fin qui condannato a vincere tutte le guerre, senza riuscire ad agguantare una pace duratura, a vivere la permanenza di uno status provvisorio. E con esso i suoi abitanti di origine araba e i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.
L’elemento scatenante della Guerra dei sei giorni era una fake news: come scrive in La guerra dei sei giorni Michael B. Oren, già membro del gabinetto Rabin, il 29 aprile 1967 il premier russo Kossygin, il ministro degli esteri Gromiko e altri funzionari informarono il presidente dell’assemblea nazionale egiziana Sadat, in visita a Mosca, che Israele aveva ammassato truppe e mezzi al confine con la Siria e si apprestava a marciare su Damasco. Non era vero, ma i sovietici intendevano tener alta la tensione in Medio Oriente, nella logica della Guerra fredda. Il presidente egiziano Nasser però ci credette e continuò a crederci, e con lui uno Stato maggiore dell’esercito desideroso di schiacciare Israele, anche quando le immagini aeree ottenute in seguito rivelarono che di truppe israeliane non c’era manco l’ombra. Nasser assembrò il suo esercito, ottenne il ritiro delle truppe ONU dal Canale di Suez, impose un blocco navale nel Golfo di Aqaba, rendendo impossibili i rifornimenti a Israele attraverso Eilat. A quel punto la guerra era inevitabile, e Israele fu più rapido (pur non potendo contare sull’appoggio di nessuno). Ma la guerra era inevitabile fin da quando lo Stato ebraico vinse la prima, subito dopo l’indipendenza, perché per arabi e palestinesi il problema non era questo o quel confine, ma l’esistenza stessa di Israele. E se in passato tutti i paesi arabi volevano cancellare Israele, oggi lo Stato ebraico ha trovato modo di stabilire una pace o una convivenza con numerosi paesi arabi, ma c’è ancora chi non vuole una pace con gli israeliani: i palestinesi di Hamas, gli hezbollah libanesi, gli ayatollah di Teheran.
La chiave, l’unica, per una pace con Israele, è questa: il riconoscimento del suo diritto all’esistenza. Finché lo Stato ebraico si sentirà assediato, oscillerà fra vulnerabilità e baldanza. Ciò che i palestinesi, nonostante le molte concessioni che nel tempo al Fatah ha fatto, continuano a pagare sulla propria pelle, costretti in un territorio sempre più esiguo, rosicchiato da sempre più numerosi insediamenti ebraici. Più passa il tempo e più l’intransigenza dei nemici di Israele riduce le speranze dei palestinesi di avere un proprio Stato, poiché da anni i governi israeliani di destra favoriscono un’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, con il recondito sogno di occupare tutta la terra biblica, mentre gli israeliani che vorrebbero la pace – una pace in cambio dei territori – hanno sempre meno voce in capitolo.