I negoziati per la coalizione di governo in Germania sono collassati e ora alla cancelliera, Angela Merkel, restano tre opzioni: convincere i socialdemocratici a formare una grande coalizione, guidare un governo di minoranza, andare al voto nuovamente. La cancelliera preferisce la terza opzione – la prima pare impercorribile, nonostante ci siano molte pressioni: l’Spd ha escluso di voler tornare al governo, elettoralmente non è conveniente e ora e punta a una restaurazione che dovrebbe, secondo le intenzioni, dare i propri frutti per il 2020. Merkel dice che un governo di minoranza sarebbe comunque meno stabile di un nuovo voto, un po’ perché nella cultura politica tedesca il governo di minoranza è quasi inesistente e un po’ perché la cancelliera non vuole che il mandato che definirà la sua legacy sia scandito da ostruzionismi e giochi di potere. Anche un nuovo voto non è molto tedesco, in realtà, ed è per questo che lo sforzo di tutti i leader del Paese è quello di richiamare i partiti alla responsabilità: prima viene la guida del Paese, poi vengono personalismi ed egoismi.
Sul banco degli imputati ci sono soprattutto i liberali, che hanno fatto crollare i negoziati e molti insinuano che volessero farlo fin dall’inizio, cioè che non abbiano fatto trattative credibili. A giudicare dai primi numeri pubblicati dopo lo stallo, sembra che la maggior parte dei tedeschi si sia convinto che i liberali siano la causa della crisi: sono stati votati per formare un governo e controbilanciare la Merkel, ma hanno rifiutato di assolvere il loro compito. Se così fosse davvero, la propensione della cancelliera a un nuovo voto sarebbe ancora più comprensibile: buona parte dei voti andati ai liberali proviene dal bacino dei cristianodemocratici guidati dalla Merkel, la quale non ha bisogno di molti voti in più per riuscire a fare un governo soltanto con i Verdi, che è l’opzione che lei preferisce. In ogni caso, se passasse il messaggio che i partiti più piccoli sono poco responsabili e poco affidabili, i voti convergerebbero verso i due partiti principali, il che sarebbe garanzia di stabilità (sulla litigiosità non si può forse dire altrettanto). Due voti nel giro di pochi mesi non sono un buon segnale, ma se l’esito poi è il rigetto della frammentazione, allora il calcolo potrebbe essere esatto.
Intanto continua lo stallo, e i detrattori della cancelliera sono stati molto svelti a inaugurare l’epoca post Merkel. Non si può dire altrettanto dei tedeschi, che pure qualche insofferenza l’hanno mostrata nelle urne, ma continuano a credere nella cancelliera (al 55 per cento, dopo dodici anni di governo) e soprattutto pensano che debba essere lei a guidare il Paese (al 60 per cento).
Ma fuori dai confini tedeschi l’egemonia merkeliana è sempre più percepita con fastidio: un sintomo evidente è stata l’eliminazione di Francoforte dalla votazione dell’Agenzia europea delle banche (Eba). Si pensava che fosse quasi scontata la vittoria di Francoforte, che ha fatto anche una campagna pubblicitaria divertente e che è quasi la destinazione naturale di un ente che si occupa di istituzioni finanziarie, invece ha vinto Parigi, a dimostrazione che tutti gli astri oggi sono allineati per il presidente francese, Emmanuel Macron. La riforma dell’Unione europea passa per la collaborazione di entrambi, Merkel e Macron, ma il preferito ora è lui. Questo basta per giustificare i molti titoli della stampa europea sulla fine imminente della cancelliera tedesca (gli inglesi come sempre si sono distinti, ma loro sono anche giustificabili visto che hanno guai grossi con la Brexit e temono molto la leadership tedesca – e il paragone tra la Merkel e la loro premier, Theresa May).
In realtà, a guardare le possibilità che ancora ci sono per la cancelliera e l’assenza di un’alternativa altrettanto stabile e credibile per la guida della Germania, i giorni della Merkel non sembrano contati. Il tic antimerkeliano è sempre molto forte, negli stessi ambienti che chiedono stabilità e riforme, contraddizione assoluta, ma i commentatori tedeschi sono i primi a dire di restare calmi. Come dice Wolfgang Schäuble, questa non è una crisi, questo semmai è un test per la Germania e per l’Europa. Un po’ presto per dire che il metodo Merkel è finito e ha fallito: un motivo del collasso dei negoziati è stata la destinazione dell’enorme surplus di 20 miliardi di euro della Germania. Tutti i paesi che vedono con sollievo lo stallo merkeliano pagherebbero per avere problemi di questo genere.