Come mai non chiediamo più ai bambini cosa vogliono fare da grandi? Abbiamo forse paura di sentire le loro risposte? Una volta, quando noi eravamo piccoli, ce lo chiedevano in continuazione. Antonello Falqui, il regista televisivo, era figlio di Enrico Falqui, a suo tempo e per trent’anni famoso e temuto critico letterario. Casa sua era frequentata da scrittori illustri e una volta Antonello, che da piccolo era ciccio bomba, si sentì porre da Carlo Emilio Gadda la fatidica domanda, accompagnata da una carezza sul capo: che cosa vuoi fare da grande? E lui: «A me me piace de magnà».
Anche a me «me piace de magnà» e questa è la ragione per la quale, fra le tante professioni fantasticate da piccolo, non c’era quella del poliziotto. Ignaro del fatto che mezzo secolo dopo avrei rivestito i panni del poliziotto nelle due serie di telefilm Una famiglia in giallo e Il commissario Manara. Il motivo per cui da grande non avrei voluto fare il poliziotto si trovava in quei meravigliosi film americani e francesi in bianco e nero degli anni 40 e dei primi anni 50, nei quali il poliziotto non mangiava mai. Nelle rare occasioni in cui lo faceva doveva accontentarsi di ingollare panini bevendo sorsate di birra direttamente dalla bottiglia. Mangiava stando seduto a cavalcioni della sedia o sul ripiano della scrivania mentre puntava la lampada da tavolo negli occhi del sospettato da interrogare o, peggio ancora, in piedi di notte dentro un portone durante un servizio di appostamento. E fuori piove, piove sempre.
Anni dopo, lavorando come operatore di ripresa, ho capito la ragione di tutta quella pioggia nei film in bianco e nero: l’asfalto bagnato rende moltissimo nell’illuminazione delle scene notturne; le case, le auto, i lampioni si riflettono sulla strada e il tutto si carica di una struggente malinconia. Comunque sia è un dato accertato che io detesto mangiare panini; posso fare un’eccezione per un panino con una bistecca alla milanese o con una frittata all’erba di san Pietro. Ma i panini per il poliziotto li andava a comprare il piantone del commissariato e figuriamoci se quello si ricordava della milanese e della frittata. Non potevo correre rischi e perciò nell’immaginare il mio futuro scartavo il poliziotto.
So già cosa state per obiettarmi, che in quegli anni almeno un’eccezione c’era e si chiamava Nero Wolfe, il detective di genio imponente e assorto, raffinato gastronomo e coltivatore di orchidee, ideato da Rex Stout in storie scritte dagli anni 30 agli anni 60. Ma Nero Wolfe non usciva mai di casa, non scarpinava per portinerie e quartieri malfamati, se ne stava tappato in casa a concimare i vasi di orchidee e a gustare gli squisiti pranzi allestiti dal cuoco, l’insuperabile Fritz. Chi andava in giro e poi riferiva era il suo aiutante, Archie Goodwin.
Per noi italiani Nero Wolfe e Archie Goodwin sono affidati per sempre alle icone del grande Tino Buazzelli e di Paolo Ferrari, nella serie televisiva diretta da Giuliana Berlinguer. Un episodio non fu mai girato perché prevedeva dal personaggio di Nero Wolfe un radicale dimagrimento nel corso della storia. Il piano di lavoro prevedeva la ripresa delle scene con Tino Buazzelli nella sua stazza abituale, poi una sospensione mentre l’attore, a spese della produzione, si sarebbe dovuto sottomettere in un clinica della salute a un drastico ridimensionamento della sua stazza. Avrebbe poi fatto seguito il completamento delle riprese. Tino Buazzelli si oppose fermamente al programma, con espressioni colorite che qui non è il caso di riferire, guadagnandosi l’affetto e la stima di tutti coloro che pensano che le diete siano un’invenzione diabolica.
Volendo, fra le eccezioni, ci sarebbe anche il commissario Maigret ma secondo me il suo autore, Georges Simenon, era uno che, quando mangiava, non si accorgeva neanche di quello che aveva nel piatto. Nella versione televisiva italiana, diretta da Mario Landi e sceneggiata tra gli altri da Andrea Camilleri, Maigret era Gino Cervi che di suo ci metteva la bevuta in tempo reale dell’intero boccale di birra. Prima però prendeva dal piattino posato sul bancone del bistrot un uovo sodo, ne frantumava il guscio sull’orlo del piatto, lo sbucciava e lo mangiava intingendolo boccone dopo boccone nel piattino del sale. E i minuti scorrevano mentre lo sguardo di Gino Cervi vagava in cerca del brano di copione che aveva nascosto da qualche parte per ripassare le battute che avrebbe dovuto pronunciare. Ma non sarà un uovo sodo a farmi cambiare idea.
Torniamo a Georges Simenon. Nelle sue Memorie intime rievoca le sue nozze a Liegi con Tigy, aspirante pittrice, con la quale si trasferirà a Parigi: «Tre fiacre aspettano giù, davanti al portone. Tigy e suo padre salgono sul primo, la madre e la nonna sul secondo, mia madre e io sul terzo. Durante il viaggio non trovo niente da dire a mia madre che tira su col naso e, per farle cambiare umore, le spiego come si fanno le patate fritte alla francese, usando l’olio invece dello strutto».
Meglio mangiare che fare il poliziotto
/ 29.06.2020
di Bruno Gambarotta
di Bruno Gambarotta