La settimana scorsa con la giornalista Andrea Köhler, proprio sulle pagine di «Azione», si parlava della consapevolezza che stiamo acquisendo rispetto agli effetti negativi del nostro tormentoso rapporto con le tecnologie e di come sempre di più troviamo modi per ritagliarci degli spazi offline, scollegati da fili e onde elettromagnetiche. Anch’io la vedo così, o meglio, mi rendo conto di valorizzare sempre di più dei momenti di pausa liberi da connessione e preferibilmente all’aria aperta. Poi però ho letto della storia di un giovane imprenditore berlinese, Jan Lennarz, e mi è venuto qualche dubbio sul nostro presunto processo di consapevolezza, tanto da chiedermi se non è vero anche il contrario e cioè che l’evoluzione tecnologica e il suo impatto sulle nostre vite non si può arrestare e, prima o poi, anche chi resiste ne sarà travolto. Mi spiego, voi praticate Yoga? Io ho fatto due lezioni di prova, una indimenticabile a Lipsia sull’erba del parco Clara-Zetkin, e mi è piaciuto moltissimo seppur, guardando gli altri, ho avuto la conferma di essere elastica come il torsolo di una mela. Difficoltà a parte, l’ho apprezzato perché si sta in silenzio e ci si concentra sul proprio respiro in un’atmosfera di grande pace.
Potete quindi immaginare la mia sorpresa quando ho letto la storia dell’imprenditore berlinese Jan Lennarz, un giovane che medita con le cuffie, uno smartphone che gli dice come e quando respirare e un groviglio di fili che lo mettono in contatto con degli apparecchi in grado di misurare la frequenza del suo respiro e il suo livello di concentrazione. Tutto questo mentre una videocamera lo riprende e trasmette ogni suo respiro sul web. Ho pensato che la signora Köhler ed io, molto probabilmente, abbiamo preso un grosso abbaglio. Anche perché Jan Lennarz non è un’eccezione ma parte di un movimento che estende le antiche tecniche meditative con l’ausilio delle moderne tecnologie. In completa contrapposizione, dunque, ai tradizionali guru questa nuova generazione di consapevoli punta sull’hight tech convinta che se la digitalizzazione ci allontana da noi stessi, se è la causa di depressioni e burnout, allora deve esserne anche la cura. Lo stesso Lennarz in passato è stato colpito da depressione e burnout per il troppo successo della sua startup che vendeva attrezzature sportive da combattimento. Chiusa l’azienda, dopo un anno sabbatico in Messico è tornato con una convinzione: puntare sull’attenzione e sull’accuratezza delle persone sfatando il mito dello stress che si respira nelle startup di nuova generazione. In ogni caso, se davvero volete provare l’ebrezza di meditare con il vostro smartphone basta munirvi di cuffiette e scaricare qualche app tipo Buddhifi, il nome è già tutto un programma, pagare sei franchi e il gioco è fatto.
Quello che però valorizza l’esperienza di Lennarz, e di altri come lui, nella nostra rincorsa al futuro, sono le cuffie e gli strumenti che indossa, grazie ai quali vengono misurate le onde del cervello, il battito del cuore e la frequenza del respiro. Da queste informazioni si calcolano degli algoritmi in grado di dire quanto chi medita sia concentrato per poi eventualmente intervenire aiutandolo a ripristinare la concentrazione. Da molti anni i ricercatori di tutto il mondo studiano le modalità con le quali dirigere strumenti tecnici con la forza del pensiero. Si chiama Biofeedback, mira a misurare i nostri pensieri in forma di segnali elettrici perché possano guidare la tecnica intorno a noi. Questo metodo unito alle potenzialità del mondo virtuale può fare grandi cose: chi si deconcentra durante la meditazione all’improvviso non sarà più immerso in un paesaggio tranquillo ma si troverà nel mezzo di una tempesta. Per farla scomparire dovrà ristabilire la concentrazione perduta. Non so voi ma io tornerei volentieri sul prato del parco di Lipsia e al paesaggio virtuale preferirei quello vero con il cinguettio degli uccellini. E se mi deconcentro, pazienza.