Le ricorrenze, a volte, si prestano a utili ripensamenti. Proprio cent’anni fa, il 4 marzo 1918, a Camp Funston, Texas, centro d’addestramento dei militari, destinati alle trincee europee, un soldato denuncia un forte malessere: dolori diffusi, febbre alta, spossatezza. Entrerà, poi, nella storia della medicina come «paziente zero»: il primo caso di grippe, la pandemia che, nei mesi successivi, avrebbe fatto un numero enorme, ancora imprecisato di vittime: fra i 20 e i 50 milioni, nel mondo intero. Ne fu colpito anche Afonso XIII, re di Spagna, in una forma considerata benigna. Da qui il nome di spagnola, tristemente famoso. Fu una strage, paragonabile alle pestilenze medievali, che oggi sembra inverosimile. L’influenza appartiene, ormai, all’ambito dei rischi , da cui è possibile difendersi, preventivamente, o con cure efficaci. Grazie, evidentemente, ai progressi della medicina, della ricerca farmacologica, della tecnologia, e non soltanto nei confronti dei cosiddetti mali di stagione.
Ma quest’evidenza è tutt’altro che scontata. Anzi, nei paesi più evoluti, dove si vive meglio e più a lungo, dove addirittura è diffuso il culto salutista del corpo, cresce la diffidenza verso la medicina. Quella ufficiale, sia chiaro, considerata un centro di potere che impone terapie impegnative e costose a pazienti esautorati, decisi a far sentire la propria voce. In nome di una libertà di scelta che li sta spingendo verso le derive delle medicine alternative, dei rimedi della nonna, delle manipolazioni salvifiche.
Come si spiega questo paradosso? Quali giustificazioni può trovare quest’intrusione dell’irrazionale nell’ambito del rigore scientifico? In che modo è possibile reagire a questo fenomeno? Sono gli interrogativi affrontati, nel recente seminario, organizzato dalla Fondazione di ricerca psicooncologica e dall’Associazione Triangolo, che, appunto, s’intitolava: «Di chi ti fidi ancora?». Confermando, così, la funzione di osservatorio della nostra realtà medica e sociale, svolta, sotto la guida di Marco Varini e di Graziano Martignoni, da oltre un ventennio. E lungo questo percorso, i seminari, destinati innanzitutto ai giovani, impegnati nel paramedico e nel sociale, hanno maturato una caratteristica inconfondibile: sono diventati una ribalta multiculturale e multimediale, dove alle relazioni scientifiche di oncologi, medici di base, psichiatri, psicologi si affiancano gli interventi di scrittori, filosofi, intercalati da spezzoni di film, da testimonianze di pazienti, da battute di attori, e persino dalle maliziose contestazioni di un avvocato del diavolo. Nella forma di uno spettacolo godibile, va in scena una vicenda reale: il rapporto fra chi presta una cura e chi la riceve. Che ha subito i contraccolpi del generale clima di sfiducia nelle istituzioni, sfociata nell’antipolitica, per citare l’effetto più vistoso.
Ora , da questo clima, per altro vago e confuso, stanno derivando effetti, insidiosi sui due fronti. Se la sfiducia incide sul prestigio del medico, mettendone in dubbio la competenza, d’altro canto, allontana il paziente da una terapia, in cui non crede più. Si è ricreata, in forma diversa, la distanza malato-medico. Non è più la soggezione nei confronti di una figura autorevole, persino elitaria, qual era «ul sciur dutur». Oggi, come ha spiegato Martignoni, ci si trova alle prese con «la cultura del sospetto e il bisogno di una sicurezza assoluta». Ma, come doveva emergere, sempre più chiaramente, nel corso del seminario, la fiducia ha trovato nuovi obiettivi. Voltando le spalle agli specialisti, con i loro macchinari, alle multinazionali che inventano veleni, chiusi in un mondo asettico e incolore, ci si è rivolti a guaritori, erboristi, manipolatori, depositari di filosofie esoteriche, che invece aprono un universo pittoresco e fascinoso. In realtà una trappola. «Dopo i credenti verranno i creduloni»: ne ha concluso lo scrittore Marcello Veneziani.
Con ciò, in questa crisi di sfiducia, le cause e, diciamo pure le colpe, vanno condivise. Certo, non tutti i medici sono scesi dal piedistallo, adeguando il linguaggio alla comprensione di tutti. E qui si tocca il punto centrale, in ogni comunicazione. Trovare le parole giuste e, come ha insistito l’oncologo Giorgio Mustacchi, saper ascoltare: «Tutti hanno una storia da raccontare». Da qui parte una relazione indispensabile e delicata.