In una delle ultime interviste, il filosofo Giulio Giorello ragionava sull’uso delle mascherine sanitarie e la nostra identità: «Siamo tutti mascherine. Ne facciamo uso, ce le portiamo appresso, le personalizziamo. Le usiamo come barriera contro il male oscuro e invisibile del Coronavirus. E come protezione verso gli altri. Le indossiamo quando pensiamo di essere in pericolo, le togliamo quando ci rilassiamo. C’è un uso pubblico: quando siamo in mezzo agli altri. E un altro privato: quando siamo in famiglia o in ambiti ristretti. Le mascherine sono diventate parte di noi, sono un pezzo della nostra identità. Ma, appunto, quale identità? Con le mascherine siamo noi, ma lo siamo anche senza. Qual è dunque l’identità vera: quella dove nascondiamo il viso o quella dove trasmettiamo – col pianto, col sorriso, digrignando i denti, schiudendo le labbra – le nostre emozioni, il nostro linguaggio non verbale?».
Quale identità? Mentre si stanno perfezionando sempre di più le tecnologie per il riconoscimento facciale, è importante riflettere su alcuni problemi dell’identità: la nostra persona una volta era particolarmente caratterizzata dal volto e dalle sue espressioni. E la mascherina invece queste espressioni le cela. Dunque parliamo di una perdita, di un nascondiglio, di una paura?
Per ragioni di convivenza (succede anche nel mondo animale), è necessario capire che intenzioni ha un individuo quando lo incontriamo e il volto è il suo passaporto immediato. Non essere in grado di compiere con facilità questa pratica di riconoscimento renderà le persone automaticamente più prudenti e sospettose.
L’utilizzo delle mascherine influisce sull’espressione e l’interazione umana, in un periodo in cui ci guardiamo a vicenda con inquietudine, in cerca di segnali di solidarietà, di ottimismo e persino di pericolo. Ci piace leggere i volti, è necessario leggerli per giudicare le espressioni dei nostri interlocutori, ma le mascherine nascondono questo tipo di segnali. «Ora non ci restano che gli occhi, e in questo modo è difficile esprimere i soliti giudizi affrettati che tanto ci piace dare, anche se sono sbagliati», ha rivelato al «Washington Post» Leslie Zebrowitz, docente di psicologia e ricercatrice in materia di percezione facciale presso la Brandeis University negli Stati Uniti. «Ci sentiamo più a nostro agio quando siamo in grado di giudicare le apparenze di qualcuno».
Se i vaccini non riusciranno a sconfiggere il Covid correremo il rischio, un forte rischio, che per molto tempo ancora le mascherine diventino le nostre protesi. Dovremo imparare a giudicare a prima vista gli altri dalle mascherine che indossano: dalla profilassi alla moda il passo è breve. Dalle prosaiche e democratiche mascherine chirurgiche, una specie di divisa da rivoluzione cinese, a quelle da fine del mondo, col filtro al carbonio ma di colori diversi, a quelle più raffinate anche nella fattura. E se alcune coprono un’area ancora più estesa del volto, ma sono ineleganti simili quasi a un paio di mutande facciali, altre sono invece già ingentilite da particolari vezzosi, come ad esempio le cinghie colorate, regolabili alle forme del volto.
C’è un artista austriaco, Markus Schinwald, che si diverte nei suoi dipinti a manipolare tele e incisioni antiche applicando su di esse protesi ed elementi che trasformino l’esperienza interna in condizioni esterne e visibili. Protesi facciali, maschere e bendaggi applicati alle figure sollecitano curiosità e inquietudine, come se celassero un mistero.
Le mascherine, infine, mettono in crisi una scienza che negli ultimi anni sembrava in ripresa: la fisiognomica. Leonardo Da Vinci ha disegnato molti studi di teste deformi, espressioni facciali portate al parossismo, fisionomie grottesche. Non erano caricature, ma il tentativo di ricercare le relazioni fra i «moti dell’animo» e le loro manifestazioni sui tratti somatici. Johann Kaspar Lavater è principalmente conosciuto per i suoi celebri scritti sulla fisiognomica. Nel suo libro più famoso, esibiva una cospicua collezione di profili, ricavati con una serie di tecniche pittoriche che, a loro volta, consentivano la realizzazione pratica e veloce di silhouette umane.
E Cesare Lombroso, pur con molti dubbi sulle sue teorie, è considerato il fondatore della polizia scientifica. Insomma, senza Lombroso non ci sarebbero state serie televisive affascinanti dove emerge la figura del profiler, agente specializzato nell’analisi psicologica delle menti criminali. Per intenderci, lo stesso tipo di specializzazione che aveva portato l’agente Clarice Starling a confrontarsi con il terribile Hannibal Lecter ne Il Silenzio degli Innocenti. Per tutti questi studiosi il volto è sempre stato considerato lo specchio dell’anima: tra le inclinazioni o le passioni più segrete e la nostra faccia esisterebbe un legame originario e irriducibile. E ora, con le mascherine?