Mascherine, maschere e noia

/ 29.06.2020
di Paolo Di Stefano

Frase da 6: «In Italia è stata molto forte la spinta verso una politica simbolica sempre più gridata sulla ribalta mediatica». Autore, il professor Carlo Trigilia, accademico dei Lincei che insegna Sociologia economica nell’Università di Firenze. Trovo il suo saggio nell’ultimo numero del bimestrale «il Mulino» (5+).

Non ho mai letto niente di Trigilia, ma basta poco per ammirarne la lucidità e la chiarezza cristallina: i leader si consumano presto quando si espongono con una frequenza ossessiva sulla scena, dove cercano consenso immediato promettendo risultati esorbitanti privi del minimo fondamento. C’era un tempo in cui le scelte degli elettori erano ispirate da appartenenze collettive legate ad ampi progetti di cambiamenti sociali.

Oggi quell’aggettivo, «ampi», non ha più senso, tanto meno se accompagnato da un sostantivo che genera subito sospetto: «progetti». Ogni ampio progetto va bandito dal campo culturale, politico, sociale. Dai partiti alle imprese, alle case editrici, nessuno ne vuole sapere di progetti che superino la settimana o il mese: meglio aspirare all’incasso immediato (elettorale o economico).

Si dirà, come sempre: è il mercato, bellezza. D’accordo, ma se il solo ineluttabile interesse è il successo sul mercato, allora dobbiamo rassegnarci a non dare alcun valore ai progetti di vasto raggio su cui investire e fondare il futuro della società come quelli della ricerca, della formazione, dell’ambiente e in generale della cultura? Che ce ne facciamo dei programmi lungimiranti che richiedono i tempi lenti della pazienza, incompatibili con la frenesia delle leadership politiche personali e dell’economia? Niente, grazie, al di là di ogni dichiarazione retorica…

Questo fenomeno, che risulta particolarmente adatto a una mentalità demagogica o populista, non è un andazzo soltanto italiano, ovviamente. Ciò che distingue l’Italia è l’altra parte del discorso del professor Trigilia: quella che riguarda la ribalta mediatica, dove la critica (quando c’è) fa parte del colore più che del dibattito costruttivo. Non esiste frase, alzata di sopracciglia, allusione, dichiarazione, sillaba pronunciata dalle persone pubbliche che sfugga ai giornali di destra o di sinistra, agli organi di centro o d’opinione. Ogni giorno pagine e pagine rigurgitanti dei borborigmi intestinali dei politici (voto 1 ai borborigmi), soprattutto di quelli che sembrano godere del provvisorio gradimento popolare (l’altro ieri Berlusconi, ieri Renzi e Grillo, oggi Salvini e Meloni). Ancora meglio se insinuano qualcosa che possa alimentare la bagarre quotidiana e ispirare il titolone di giornata con relativo contorno di editoriale e retroscena (diventato un genere giornalistico: 2–).

Accade dunque che i cosiddetti «cani da guardia della democrazia» siano, in varia forma, parti recitanti del teatrino, in una pièce soporifera e prevedibile, nel migliore dei casi comico-grottesca. Teatrino pochissimo apprezzato dal lettore comune (vedi risultati in edicola) e adorata dalla corte dei miracoli degli addetti ai lavori (o livori), spesso allegramente e litigiosamente riuniti nei talk show, dove gli attori in scena recitano ruoli fissi, immutabili come le maschere della commedia dell’arte, e su questa immutabilità costruiscono la loro personale fortuna mediatica.

Spiace molto dirlo, ma basta sfogliare i migliori giornali stranieri (francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli, svizzeri) per notare la netta differenza rispetto alla colorita commedia dell’informazione all’italiana, dove tutto (l’ottimo, il buono e il pessimo) viene gettato nello stesso pentolone e ben rimestato. Autocritica? Zero, ovviamente. L’accusa con cui vengono liquidati «Le Monde», «El Pais» o la «Neue Zürcher Zeitung» è l’imperdonabile grigiore. Eppure, il grigiore dovrebbe essere un merito, almeno a sentire un’autorità somma del colore, come Paul Cézanne: «In natura – diceva – non c’è altro che grigio, ma è difficile coglierlo» (6+).

Si sente in giro un inspiegabile disprezzo del grigio e della noia. Ma è più «noioso» un giornale pieno di litigi, attacchi, polemiche, insulti, batti-e-ribatti, retroscena, o un giornale ragionato, disteso, narrativo? Personalmente non ho dubbi. Così come non ho dubbi nel ritenere noiosissimo il solito romanzo giallo con il solito detective intelligentissimo e finto svagato. Quanta gente, negli ultimi quattro mesi, ha manifestato la propria insofferenza per la «noia» del confinamento in mascherina. Blaise Pascal ha scritto, non a torto, che «tutti i guai dell’uomo derivano dal non saper stare fermo in una stanza» (5½). L’abbiamo sperimentato.

Secondo Leopardi la noia è il più nobile dei sentimenti umani. Ma dipende che cosa si intende per «noia». Per Leopardi la noia non è l’opposto del divertimento, dunque è tutt’altro che noiosa, perché «ci mostra l’insufficienza delle cose esistenti di fronte alla grandezza del desiderio nostro». Già, il desiderio. Il desiderio che genera noia ci mette di fronte alle clamorose lacune della realtà: non l’ennesimo libro giallo, non l’ennesimo bisticcio tra politici, non le ennesime promesse da marinai, ma un «ampio progetto», quello sì.