Il piccolo Monriad si nasconde nella città vecchia (Medina) di Marrakech, alla fine di un vicolo cieco, protetto dal caos e dai rumori. Il riad, la caratteristica casa marocchina, è chiuso all’esterno da alti muri senza finestre. Le stanze dei diversi piani si affacciano sul cortile centrale con una fontana e, se lo spazio lo consente, un giardino. È caratteristica dell’Islam questa rigida separazione tra spazi pubblici e privati, dove si svolge la vita familiare. E tuttavia sempre più spesso queste dimore tradizionali sono restaurate con cura e affetto da stranieri (nel mio caso Manuela, una sorridente signora di Pavia, aiutata dal padre). La maggior parte dei dipendenti invece sono del posto.
Con una breve passeggiata attraverso i vicoli della Medina arrivo in piazza Jamaa el Fna, la più grande dell’Africa, dominata dal minareto della moschea Kutubiyya. Al risveglio della città nella piazza si allestisce il mercato. Più tardi sopraggiunge una varia umanità: chiromanti, cartomanti, erboristi, cavadenti, venditori d’acqua con i larghi cappelli a frange, suonatori, incantatori di serpenti, ammaestratori di scimmie, danzatori, cantastorie, musicanti e maghi. Verso le quattro del pomeriggio spuntano dal nulla numerosi ristoranti di fortuna, distinti da un numero, gridato forte perché s’imprima nella memoria di chi passa. Seguendo il consiglio di Antonella, un’amica italiana trasferita in Marocco, ceno da Aisha, alla bancarella n. 1. Quando la confusione e l’insistenza dei venditori diventano eccessive mi ritiro sulla terrazza dello storico Café de France, da dove contemplare lo spettacolo a distanza di sicurezza. Le voci dei danzatori gnawa risuonano sino a oltre mezzanotte. In piazza Jamaa el Fna i turisti sono tanti, troppi. Ma altrettanto numerose sono le famiglie marocchine, con vecchi e bambini. Qui il turismo internazionale si è aggiunto, non sostituito, alla vita locale.
Uscendo dal lato settentrionale di piazza Jamaa el Fna ci si ritrova nel vasto mercato coperto (suq). Impossibile sottrarsi alle continue offerte dei venditori e anche la contrattazione, con i suoi tempi allungati, è un rito inevitabile. Qualche bancarella ha merce scadente importata dall’oriente, ma di norma gli artigiani di Marrakech hanno una reputazione meritata per la qualità dei loro prodotti: tappeti, coperte, pantofole, tazze, lampade, teiere… E infatti, a fianco dei turisti in cerca di souvenir, noto diverse famiglie marocchine che acquistano prodotti d’uso quotidiano o aggiungono un nuovo tassello al corredo della figlia (combinare matrimoni in Marocco è una passione nazionale).
Poco oltre El Badi, «il palazzo incomparabile», ci si perde nell’antico ghetto ebraico (Mellah), raccolto intorno alla piccola sinagoga. È un vivace quartiere popolare dove arrivano solo pochi turisti. Sa di vero e invece gli ebrei di Marrakech (se ne contavano decine di migliaia) dopo la nascita dello Stato di Israele sono emigrati, lasciando dietro di sé solo le tombe bianche rettangolari del cimitero Miâara.
Dopo qualche giorno la città rossa (così chiamata per il colore dei suoi edifici) può dare un senso di claustrofobia. Passo la sera nel lussuoso campo tendato di Agafay, a un’ora di distanza, alle porte del deserto di pietra. Mentre il sole tramonta, converso con l’amico Mustapha. È un giovane uomo dal viso aperto, intelligente, ingegnoso. Conosce sei lingue, imparate parlando coi suoi clienti. I due dromedari della nonna, quand’era un ragazzino povero e portava i turisti nel deserto, sono diventati una piccola flotta di minivan. Oggi Mustapha è un imprenditore turistico, ha sposato una donna occidentale, vive in una casa nel moderno quartiere di Gueliz, dove più forti sono i ricordi del protettorato francese (1912–1956). E tuttavia al fondo si sente sempre un berbero, un «uomo libero», secondo l’etimologia del termine.
Insomma chi a Marrakech andasse in cerca del Marocco vero, o autentico, come si dice spesso, potrebbe restare deluso. Ma neppure s’incontrano riproduzioni o messe in scena a esclusivo beneficio dei turisti. Mi sento piuttosto catturato in un complesso gioco di rimandi e di specchi (non a caso prodotti in gran numero qui in città). Forse − penso − l’identità può essere una prigione, mentre Marrakech è sempre stata una porta, un grande mercato, un luogo d’incontro sulla soglia del deserto (v. pag. 17, I porti delle sabbie, di Enrico Martino), tra partenze e ritorni, dove noi europei siamo solo gli ultimi arrivati, con il vizio di fare troppe domande. Il sole rosso che scende dietro le dune di Agafay invita a fare pace con la complessità del mondo.