Quando consulto le novità editoriali e considero i titoli in uscita spesso mi colpisce quanto sia prospero un tipo di editoria che sforna di continuo una gran quantità di manuali. Non si tratta però di manuali per giocare a scacchi, o per apprendere l’arte di cucinare, o per utilizzare meglio il computer; no, sono manuali per vivere meglio! Dunque, libri del tipo: Come trattare gli altri e farseli amici, Come smettere di preoccuparsi, Come essere felici e così via.
Mi viene spontaneo pensare che la nostra è l’epoca più ricca di manuali che si sia mai vista. Da un lato la cosa è comprensibile: in un mondo sempre più complicato, sempre più invaso dalle tecnologie e dalla complessità, i manuali sono una sorta di mappe per orientarsi nel labirinto. Ma il proliferare di manuali per regolare i rapporti interpersonali, per consolidare rapporti affettivi e per vivere meglio con gli altri e con se stessi, è cosa molto più strana e significativa.
Beninteso, la saggezza antica ha sempre riflettuto sui rapporti umani, sulla serenità d’animo, sulla ricerca della felicità; e la filosofia ha dispensato ampiamente questa saggezza per chi la volesse praticare. Ma i testi di Platone, Seneca, Marco Aurelio, Montaigne e molti altri non sono propriamente dei manuali (anche se l’opera dello stoico Epitteto, tradotta anche da Giacomo Leopardi, ha per titolo proprio Manuale!): contengono massime e pensieri che non indicano affatto la via più rapida e breve per avere amicizia, amore, felicità, ma che servono solo a destare la riflessione in colui che legge. La saggezza non è trasferibile dall’uno all’altro come un bitcoin o una foto digitale: per chi davvero vuole imparare a vivere – a vivere bene – la saggezza degli antichi o di qualche maestro può essere di grande aiuto, ma solo se la riflessione personale assimila e fa propri i suggerimenti e le esperienze di vita dell’altro. Nel romanzo di Saul Israel La leggenda del figlio di Re Horkham si legge: «La saggezza non si digerisce che con la propria saliva, essa non è come una veste che si può indossare anche se è troppo grande per la nostra corporatura. Volendola per forza indossare, finisce per pendere da tutte le parti senza seguire armoniosamente le linee del corpo». Non c’è, dunque, una saggezza universale, una taglia che vada bene per tutti: a ognuno spetta il compito di costruire su misura la sua personale saggezza.
Temo però che per molti un testo come il Della tranquillità dell’animo di Seneca sia oggi troppo impegnativo: meglio un manualetto che ti promette di farti felice alla spiccia. Chissà, magari a qualcuno può essere d’aiuto. In ogni caso, libri del genere hanno, evidentemente, un buon pubblico, visto che si vendono e ne appaiono sempre di nuovi: e anche questo, a mio avviso, è un segno significativo del nostro tempo. La società d’oggi è sempre più immersa nella solitudine e sempre più dipendente da surrogati artificiali; un tempo era l’anziano, erano i libri che trasmettevano al giovane la saggezza del vivere; adesso, spesso privi dell’aiuto dell’adulto, i giovani tendono in genere a non ricercare la saggezza, a non ritenerla importante, a rinviarla indefinitamente. Poi, magari, quando la vita si fa vuota e la solitudine, la delusione e la noia diventano un tormento, allora insorge la depressione – che non a caso è il disturbo mentale più diagnosticato, indicato già alla fine del Novecento dall’Organizzazione mondiale della sanità come il più frequente dei disturbi psicologici. E allora suppongo che un titolo allettante che ti promette la felicità in pochi capitoletti possa attrarre parecchi lettori. Ma se poi, come è probabile, fa seguito la delusione derivante dall’insuccesso, difficilmente l’infelice cercherà di coltivare da sé la forza per risollevarsi: probabilmente svilupperà un’altra forma di dipendenza ricorrendo agli psicofarmaci o al sostegno dello psicanalista.
Purtroppo, però, anche in questo caso il rimedio non è sicuro: ci sono molti studi che attestano la dubbia efficacia di queste terapie e molti autori ne hanno svolto critiche severe. Karl Jaspers, ad esempio (che era uno psichiatra, nonché filosofo), auspicava un’estinzione della psicanalisi, che avrebbe voluto sostituita da un potenziamento di quella comunicazione tra medico e paziente che l’era della tecnica tende a liquidare. Ma non credo che l’auspicio possa avverarsi: come ha scritto Robert Castel (un altro critico della psicanalisi), la nostra è l’unica società che paga delle orecchie per ascoltare.