«Parla come mangi» diceva un vecchio proverbio, che raccomandava l’uso di parole semplici e comprensibili, appartenenti al linguaggio corrente. Proprio, come, per nutrirsi, ci si affidava ai cibi, genuini e digeribili della tradizione locale. E se questo detto popolare, spesso dialettale, forse è giù di moda, il nesso fra luogo e alimentazione, che sottintende, è invece più che mai attuale. Si sta, infatti, assistendo, alla riscoperta e al rilancio di piatti e vini nostrani, attraverso eventi che ci accompagnano tutto l’anno, e raggiungono l’apice, in autunno. La stagione della vendemmia, dei funghi, delle castagne, della caccia, è, non da oggi, l’emblema della buona tavola, che, adesso, si presta a un’infinità di rievocazioni. Dove, comune denominatore è il rimpianto per un passato, rivisitato in quella chiave nostalgica, che produce immagini e convinzioni a volte illusorie. La realtà storica parla diversamente: dal profilo igienico-alimentare, questo passato sarebbe piuttosto da dimenticare. Vale la pena, in proposito, rileggere il saggio di Rosario Talarico Il Cantone malato. Fino agli inizi del secolo scorso, anche da noi, ci si ammalava proprio a tavola, addirittura mangiando il pane: «Confezionato con farine guaste, ammassate in ambienti umidi e poco ventilati dove degeneravano e acquistavano un sapore e odore “empireumatico”, cioè nauseabondo». Erano, ovviamente, cibi privi di conservanti, ancora di là da venire.
Oggi, paradossalmente, ci si trova alle prese con i timori, provocati dall’opposto: l’eccesso di additivi d’ogni genere. Da qui la crescente diffidenza nei confronti di prodotti conservati, surgelati, liofilizzati, precotti e via enumerando le tante diavolerie inventate dalle multinazionali: a cui si reagisce ripristinando i piatti della cucina della nonna, promossi a simbolo di ingredienti genuini e di inesauribili capacità creative. Dovrebbe, insomma, nascere una ghiottoneria con altri connotati, antica e in pari tempo nuova, ma innanzitutto virtuosa.
Questo, del resto, è l’obiettivo al centro delle iniziative, in corso in un Ticino che si dà da fare, e ci riserva persino sorprese. Da vecchia luganese, e forse non sarò la sola, scopro, adesso, che la polpetta è una tipica specialità locale, tanto da diventare il simbolo stesso della «Lugano città del gusto». È l’inatteso riscatto di una pietanza modesta, e per certi versi sospetta. Fra le curiosità linguistiche, raccolte da Ottavio Lurati, figura, infatti, la definizione «milite ignoto»: così gli allievi dell’Accademia navale di Livorno chiamavano la polpetta, alludendo a un indecifrabile insieme di avanzi. Ma, ecco che, ciò che era un inconveniente si tramuta in vantaggio: un modo per riutilizzare i rimasugli ed evitare gli sprechi. Assume un valore aggiunto d’ordine ambientale, finanziario e addirittura etico. Non da ultimo politico, come ha dimostrato, la recente iniziativa popolare per «alimenti equi», che se testimonia una sensibilità delle autorità per la nostra salute, d’altro canto conferma la dimensione sempre più pubblica di un ambito che, un tempo, era strettamente, quasi gelosamente privato.
Certo che ne ha fatto di strada il tema cibo, sul piano mediatico sui giornali, era relegato in un angolino della cosiddetta pagina della donna, un banale argomento femminile. Oggi, diventato unisex, domina sulla carta e sugli schermi, creando una nuova forma di divismo: lo «chef» ha persino spodestato lo stilista. E non soltanto. A fianco della professione di cuoco, che sembra attirare i nostri ragazzi, si sono sviluppate altre specialità: nutrizionisti, dietologi, assaggiatori, organizzatori di convegni dove il cibo viene affrontato sul piano filosofico. «L’uomo, diversamente dall’animale ha scoperto, mangiando, la dimensione del piacere», osservava, in un incontro luganese, il filosofo Carlo Sini.
Ma, in definitiva, tutto questo fervore informativo ed educativo lascia tracce? Ha vinto lo «slow food» o il «fast food»? In proposito ricordo la battuta di una cassiera della Migros: «Sapesse quanti surgelati e precotti vedo nei carrelli».