Non racconta mai come è arrivato in Italia, neanche quando fra noi si creerà una certa confidenza. Da alcuni accenni capirò che ha percorso la rotta balcanica. A piedi, e poi nell’intercapedine di un tir. E’ il più anziano del suo gruppo: quando lascia il suo paese, il Bangladesh, ha già trent’anni. Gli altri sono appena maggiorenni, qualcuno nemmeno. Mi sono chiesta a lungo perché fosse emigrato così tardi. Forse recalcitrante, trascinato dal flusso sempre più ingente dei suoi connazionali. Forse entusiasta, travolto dal sogno collettivo di riscatto. E’ gracile, minuto, scuro di pelle, con gli occhi fiammeggianti e un elmo di capelli nerissimi – lucidi e folti. Il viaggio è stato organizzato nei minimi dettagli, e così l’inserimento nel mondo del lavoro. Se così si può dire: non hanno documenti, non esistono. Sono fantasmi bambini: non parlano la lingua, dipendono in tutto dai loro boss. Che li portano al lavoro all’alba, li riprendono la sera. Dormono tutti insieme, in un casamento di periferia.
Abbinati due a due, li smistano a vendere aglio di provenienza cinese, tre teste sigillate in un sacchetto di cellophane, nei mercati rionali della capitale. Lui fa coppia con un ragazzo di diciott’anni – sveglio, simpatico, col musetto da schiaffi e una risatina contagiosa. Ovviamente incassa assai più di lui. Malik fatica a imparare la lingua, perfino le frasi necessarie, non sa chiedere né agganciare i potenziali acquirenti, non riesce a smerciare i suoi sacchetti. Il primo anno vende solo a pensionate anziane ed ex operaie, che lo aiutano per compassione. A giugno i boss li deportano sulla costa. Per tre mesi, fino al tramonto, batte le spiagge del litorale, sovraccarico di asciugamani, parei, braccialetti, accendini. E’ sempre vissuto in un villaggio di campagna, non ha mai visto il mare. E nemmeno donne svestite, scosciate, distese a rosolarsi sotto il sole. Quel tripudio di corpi e forme odorose lo sconvolge e lo ossessiona. Le bagnanti lo trovano fastidioso, perché le fissa con insistenza. Al rientro in città, diventa assiduo in una moschea anonima, alloggiata in uno scantinato. L’imam gli ingiunge di tenersi puro, e di limitare al massimo i contatti con le donne bianche. Possono corromperlo. Sono tutte prostitute. Quando me lo riferisce, discutiamo animatamente. Ti inganna, lo avverto. Non è così. Malik non ha parametri di confronto. Gli crede.
Però al mercato come in spiaggia le donne sono le uniche a rivolgergli la parola e ad acquistare i suoi prodotti. A poco a poco escogita una strategia che non lo compromette: crea un legame oculare, ma per pochi istanti, mentre supplica, poi ringrazia, con dignitoso distacco. Si concede solo un fuggevole contatto con le dita femminili quando prende i soldi. Sono solo, confessa, vorrei tanto una moglie. Ma non potrà essere di qui.
Col passare degli anni i ragazzi arrivati con lui si liberano dalla schiavitù dell’aglio e si disperdono. Alcuni diventano assistenti nei banchi degli ortolani, e poi titolari, altri gestiscono minimarket, che - pur misteriosi e sempre vuoti - proliferano in ogni isolato della città. Di sanatoria in sanatoria riescono a emergere dalla clandestinità, si sistemano. Malik no. E’ analfabeta, troppo vecchio per iniziare la scuola e anche per la trafila di garzone. Colleziona fogli che gli ingiungono l’espulsione. Due volte lo truffano al momento di aggiustare i documenti. Cambia spiaggia, risalendo la costa verso nord, e mercato rionale, scivolando in quartieri fuori dal raccordo anulare. Lo perdo di vista. Il mio vecchio numero di telefono non è più attivo. Se anche mi ha cercato, non potrò saperlo.
Quando lo ritrovo ha una frezza di capelli bianchi sulla tempia - come me, siamo coetanei - e cammina claudicando, impedito da una lieve zoppia. Mi saluta con l’identico sorriso. Nulla – oltre la malattia – pare essergli accaduto. Mi dice che non è ancora mai tornato in Bangladesh. Potrà farlo solo quando potrà sposarsi, e non è ancora il momento. Desidera il ritorno almeno quanto lo teme. Ti stai curando? gli chiedo. Sì, ha trovato un bravo dottore, ormai è in regola. Ma forse dovrà subire un trapianto di rene. Ha già passato i quarant’anni, gli suggerisco di non aspettare ancora troppo. Malik insiste che tornerà al villaggio solo quando potrà farlo da signore e scegliersi la moglie giusta per lui. Dovrà essere giovane, e bella. Ormai non può accontentarsi. I suoi parenti credono che sia diventato molto ricco, qui. Sì, conosco la storia. E’ sempre la stessa.
Incontro i suoi amici, ogni tanto. Alcuni si sono sposati e i loro bambini frequentano la scuola materna del mio quartiere. Le loro mogli invisibili si manifestano solo le sere d’estate, dopo le 19, quando escono guardinghe di casa, circondate da un nugolo di figli. Sono giovani e graziose, come la moglie che sogna Malik. Non hanno imparato l’italiano. I bimbi traducono per loro gli obblighi della scuola e dei pediatri.
Malik invecchia solcando gli stessi viottoli del mercato rionale. Adesso più che chiedere di acquistare i suoi sacchetti lo pretende. Il suo volume di affari deve essere minimo. Mi viene incontro dicendo “sono la tua tassa, ciao”. E’ sempre in lista d’attesa per il trapianto. Non si è sposato e non è ancora tornato in Bangladesh. Gli faccio notare che ormai il suo viaggio non è così necessario: il Bangladesh è venuto qui. Malik mi porta dietro il banco della frutta ed estrae dalla giacca una busta, piena di banconote da cinquanta euro. Sono parecchi soldi. Bastano e avanzano per il biglietto aereo. Mi chiede di accompagnarlo al money transfer all’angolo. Li manda a casa, dice, con orgoglio. Il figlio si sposerà il mese prossimo. Non mi ha mai parlato di un figlio. Era molto piccolo, quando è morta la moglie. Lo ha lasciato al fratello. Non lo vede da vent’anni. Se non avessero inventato gli smartphone con le videochiamate neanche lo riconoscerebbe. Ogni testa di aglio che mi hai comprato, sorride, ha pagato la scuola di mio figlio. Ha studiato, lui, non abita più al villaggio.
Capisco solo adesso che Malik ha ceduto la propria vita al figlio – sublimazione estrema del ruolo di genitore. Così ogni volta che soffriggo l’aglio penso alla rinuncia di Malik. E l’odore che si sprigiona mi dà le vertigini.