L’utopia è ormai superflua

/ 17.09.2018
di Franco Zambelloni

L’Occidente ha spesso sospinto la sua storia progettando utopie: sogni di mondi migliori, ritorni all’età dell’oro, paradisi in terra. Ma oggi le utopie sembrano estinte: di giardini di delizie non si parla più (salvo forse nella pubblicità di viaggi esotici).

Una delle ragioni di questo declino sta indubbiamente nel fatto che tentativi storici di realizzare società perfette se ne sono fatti, ma sono sfociati in clamorosi fallimenti. Nell’Ottocento si poteva ancora sognare una «armonia sociale» con l’abolizione delle classi, della famiglia, della proprietà privata (così scriveva Marx nel 1844); le rivoluzioni comuniste non hanno però condotto a società armoniose, ma solo a violente dittature. Anche la «secolarizzazione» e la «demitizzazione» in atto nella nostra cultura hanno illanguidito la tendenza umana a sognare l’impossibile. Però, a mio avviso, la causa principale del declino del pensiero utopico sta nel fatto che abbiamo realizzato molti più sogni di quanti ne abbiamo fatti nel passato. Carestie, pestilenze e guerre sono – almeno per l’Europa occidentale – ricordi di un tempo abbastanza remoto: tutto quello che ha flagellato l’umanità nel corso della sua storia sembra uscito di scena e le democrazie, le conoscenze scientifiche, le nuove tecnologie permettono di prevenire con efficacia disastri e catastrofi contro i quali, prima, ci si poteva solo affidare a un Dio. E «per la prima volta nella storia si muore più per colpa degli eccessi alimentari che per la mancanza di cibo; la morte ci coglie più spesso in tarda età, per vecchiaia, che in gioventù, per malattie infettive».

Tolgo la citazione da un libro apparso recentemente in traduzione italiana, dal titolo significativo: Homo Deus. L’autore, Yuval Noah Harari, evidenzia bene come il progresso scientifico, tecnologico ed economico abbia consentito all’uomo di realizzare imprese che una volta potevano essere affidate solo ad un intervento sovrannaturale: in altre parole, hanno permesso all’uomo di «farsi Dio».

L’ambito più vistoso – e anche il più inquietante – di queste recenti conquiste mi sembra quello della biologia e, in particolare, della genetica. Sono passati poco più di vent’anni da quando è stata clonata la pecora Dolly: un evento che ha scosso l’opinione pubblica dimostrando come sia possibile, per l’uomo, «creare» un essere vivente senza il procedimento riproduttivo naturale. La fecondazione in vitro oggi è già abbastanza frequentemente praticata. Organismi geneticamente modificati (OGM) sono realizzati nella produzione di cibi transgenici, suscitando diffidenze e paure. Nel 2000 è stata decifrata per la prima volta l’intera sequenza di un cromosoma umano – un successo foriero di possibilità ben più grandi: poter intervenire sul codice genetico correggendone eventuali aberrazioni consentirebbe di debellare malattie congenite dell’embrione, assicurando così la nascita di un neonato sano (il primo intervento di terapia genica risale al 1990).

E ci sono poi orizzonti sconfinati che si schiudono alla luce di queste nuove conoscenze: c’è chi ipotizza una riprogrammazione dei geni che consenta a futuri genitori di scegliere il sesso del nascituro, di potenziarne capacità e talenti. E, ancora, si apre davanti a noi, in un futuro non troppo lontano, la speranza di poter ringiovanire periodicamente corpi logorati dal tempo e di rinviare indefinitamente la morte. Il colosso informatico Google sta investendo cifre vertiginose in questa impresa; e i responsabili di questa ricerca sono giunti ad affermare che nel 2050 una persona in buono stato di salute potrà sottoporsi ogni dieci anni a un processo di ringiovanimento (purché abbia un fisico adatto, e – ovviamente – notevoli risorse finanziarie), sfuggendo così interminabilmente alla vecchiaia e alla morte.

Nel 2050! È ovvio pensare che parecchi, nati nel secolo scorso, di fronte a questo traguardo per loro troppo lontano non potranno fare a meno di imprecare: «Accidenti! Fossi nato venti o trent’anni dopo!...». Ma, almeno, questi «sfortunati», tra i quali figuro anch’io, hanno sempre saputo di dover dare un senso al tempo limitato della loro vita; mentre, per chi nutre prospettive d’immortalità terrena, vale la riflessione di Harari: «L’onnipotenza è di fronte a noi, quasi alla nostra portata, ma sotto i nostri piedi si spalanca l’abisso della completa insignificanza».

Così, mentre ci avviciniamo a un’onnipotenza reale, finiremo forse per rimpiangere un mondo in cui era lecito sognare l’impossibile.