Per giorni, dopo l’inaugurazione dell’opera di Mario Merz (1925-2003) il trenta giugno del 1992, nessuno dei piccioni e passeri che frequentavano numerosi l’atrio dell’Hauptbahnhof sorta a Zurigo nel 1847, si fece vedere. Per via delle due aquile reali, a grandezza naturale, in volo assieme ad altri tre uccelli e un cervo. Dal binario dieci, scendendo in testa al treno verso sera ai primi di dicembre, settantaquattro passi direzione Limmat portano alla prima prospettiva. Devo solo voltarmi e alzare la mira. Sulla vetrata lato ovest, nata negli anni trenta a sette metri da terra, nello spazio di otto metri per quarantadue, si dipana una spirale al neon rossa all’interno della quale volano cinque uccelli e un cervo, contrassegnati ognuno da un numero luminoso azzurro. È L’uovo filosofico della stazione centrale di Zurigo (415 m).
Sono le sei e trentaquattro e cinquantacinque secondi come indica l’enorme orologio lì sotto usato come tradizionale Treffpunkt. L’effluvio solito di bratwurst, in questi giorni che si accorciano sempre più, s’intreccia alle zaffate di glühwein. L’attrazione maggiore – oltre all’albero Swarovski – del mercatino di Natale dove l’odore dei churros si mescola a quello di raclette, älplermagronen, currypizza o cos’altro. Il colpo d’occhio introduttivo al lavoro site specific dell’artista italiano esponente dell’Arte povera – termine, si sa, coniato da Germano Celant nel 1967 – è troppo ravvicinato e deconcentrato dall’andirivieni classico che però amo molto nel tempo libero. La ricognizione continua dunque con ventuno passi verso l’uscita Bahnhofplatz, mettendomi in un angolo, al riparo dal bellissimo caos consueto della più grande stazione ferroviaria svizzera. Qui si vede come si deve l’opera vincitrice di un concorso a inviti in vista delle celebrazioni del settecentesimo della Confederazione.
All’inizio della spirale, ingigantite, ci sono una ghiandaia e una cinciallegra di polistirolo espanso rivestito di poliestere. Come le due aquile e il corvo tra le curve del tubo rosso luminescente che si conclude con il cervo, sempre dello stesso materiale. Sul corpo, in neon azzurro, il numero cinquantacinque. È l’undicesimo componente della successione di Fibonacci: una serie di numeri dove ogni numero nasce dalla somma dei due precedenti. Zero, uno, uno, due, tre, cinque, otto, tredici, ventuno, trentaquattro, cinquantacinque, eccetera. Presente geometricamente in natura nella spirale della conchiglia di certi molluschi genere Nautilus, nella disposizione spiraliforme dei semi di girasole o delle rosette di un broccolo romanesco, questa proliferazione numerica appare nel Liber Abbaci (1202) di Leonardo Fibonacci (1175 circa – 1235 circa). Dove il matematico nato a Pisa che ha viaggiato molto nel mondo arabo per studiare i segreti dell’algebra dai vecchi maestri occulti, per spiegare la successione che prende oggi il suo nome, utilizza l’evolversi di una coppia di conigli. Omesso lo zero da Merz, si parte con la cincia sovradimensionata e la ghiandaia marina che portano entrambe l’uno, si continua con il due e il ventuno sul petto dei rapaci, l’otto sul dorso del corvo imperiale. I numeri volatili mancanti (tre, tredici, trentaquattro) si trovano lungo la trave mediana dell’intelaiatura di metallo della vetrata dove in orizzontale è riproposta la serie da uno a cinquantacinque. Spesso, passando di qui per la milionesima volta, in un momento di stanchezza, prima di ripartire, mi sono rifugiato con lo sguardo a undici metri da terra dove riluce il cinquantacinque azzurro sul fianco del cervo in volo verso il cielo. Un po’ la mia stella cometa di tutta la stazione dove passa quasi mezzo milione di persone al giorno.
E così mi dirigo nel punto di vista abituale per contemplare il cervo cometa, sotto l’angelo cicciabomba di Niki de Saint Phalle sospeso dal 1997 vicino alla Brasserie Federal. Dove una volta, lì al bancone fuori, un signore con il loden liso aveva definito il lavoro in situ di Merz come «Surrealismo alpestre». «Hitchcock mit Hirsch» aggiunse poi alla terza birra. La quarta gliela offrii io per merito di questi due validi frammenti orali ripescati nella memoria. Ci sono anche due pezzi di neon che stavo quasi dimenticando, simili a parentesi ma che sono più che altro il proseguimento, spezzettato, del tragitto della spirale. «I numeri e la spirale che corrono verso l’infinito contaminano le cose con un’energia irrazionale che travalica i confini circoscritti della realtà ordinaria» ha scritto la critica d’arte Maddalena Disch a proposito dell’Uovo filosofico di Mario Merz. Il titolo, va detto, forse è un po’ pretenzioso o forse no, comunque è una lunga storia quella dell’uovo filosofico tratto dall’alchimia e stiamo qui fino a domani.
Il cervo di Zurigo piuttosto – scambiato magari da qualcuno per renna in questo periodo – da domenica ventiquattro febbraio scorso, mi ricorda anche quello visto nella mostra degli Igloos di Merz all’Hangar Bicocca di Milano. In cima a un igloo, imbalsamato ma ancora sacrale e magico, dominava tutto l’ex hangar della Pirelli illuminato dal suo numero azzurro al neon: diecimilanovecentoquarantasei. Il ventunesimo numero di Fibonacci. I piccioni qui alla stazione centrale di Zurigo, tra l’altro, in contrasto con i numeri di Fibonacci, hanno un numerus clausus. Non di certo le clementine che intendo sbucciare ora alla faccia del ripugnante mercatino di Natale.