Lunga vita, bella vita?

/ 19.03.2018
di Franco Zambelloni

Un uomo cammina per la strada ondeggiando con i fianchi, con le spalle e con le braccia, al ritmo di una musica che gli auricolari gli infilano direttamente nelle orecchie. Quello che mi colpisce non è tanto il suo andamento ballerino, quanto la sua età: lo direi sui quarant’anni e oltre. Anche il suo abbigliamento è curioso: jeans lacerati ad arte sulle ginocchia, scarpe da ginnastica, zaino sul dorso. E, sul capo, una vistosa cresta di gallo disegnata da capelli ritti, impomatati e dipinti.

Mi è così venuto in mente che da pochi anni i dizionari della lingua italiana, compreso il Treccani, hanno legittimato l’uso di un neologismo espressamente coniato per designare una nuova categoria sociale: «adultescente». L’adultescente è una persona che per età non è certamente più un ragazzo, bensì un adulto, ma per mentalità e comportamento rimane ancora nell’adolescenza. Se è stato necessario inventare un nuovo termine è perché, evidentemente, il fenomeno conta ormai un considerevole numero di esemplari. 

L’abbigliamento o la pettinatura non sono, di per sé, segnali straordinari: una moda dilaga in fretta e l’esigenza commerciale impone un incalzante rinnovamento. Invece, è lo stentare della crescita personale ad essere inquietante: che un individuo non voglia uscire dall’adolescenza per un lungo tratto della sua vita, che rimanga un fanciullo anche quando il suo organismo è adulto da tempo – tutto questo implica anche un rinvio sine die di quelle caratteristiche che in passato contrassegnavano l’età adulta: la maturità del giudizio, la normalità del comportamento, l’assunzione di responsabilità. 

I ritmi e le fasi dell’esistenza sono decisamente cambiati. L’infanzia dura poco, i ragazzi ne escono in fretta e passano all’adolescenza; poi, lì si fermano a lungo. Si possono individuare molte ragioni alla radice del fenomeno: in primo luogo, la facilità di vivere oggi. In un passato non lontano, sotto la spinta delle necessità materiali, non si poteva perdere tempo, bisognava darsi da fare appena se ne era in grado. E non potevi adagiarti e sbagliare: se volevi realizzare qualcosa, raggiungere un traguardo, dovevi impegnarti con tutte le forze. E così crescevi. Ma oggi, che bisogno c’è di darsi da fare? Un ragazzino ha già tutto quel che gli serve e quel che desidera: e se desidera ancora qualcosa, basta che strilli e faccia capricci e prima o poi la ottiene. Faticare, studiare: perché? Tanto sei promosso, anche se non studi. E se – caso assai improbabile – ti capita di dover ripetere una classe, non è poi un gran danno: davanti a te c’è una lunghissima vita che ti aspetta.

Certo, anche il prolungamento della vita è un fattore determinante. La storia passata insegna che anche qui ci sono stati grandi cambiamenti. È vero che Noè, come si legge nell’Antico Testamento, visse ancora 350 anni dopo il diluvio; dunque, considerando che quando si mise a costruire l’arca aveva già 600 anni, visse in tutto quasi un millennio. Bella tempra! Però dai tempi suoi e degli altri patriarchi biblici la vita umana è andata degenerando: per Dante la «senettute» cominciava a 46 anni e ci furono periodi storici nei quali la speranza di vita non raggiungeva i cinquanta. Ma poi, a partire dal secondo dopoguerra, la tendenza al rialzo si è rafforzata e il nuovo corso va continuamente accelerando: dal 1900 ad oggi la speranza di vita in Svizzera è praticamente raddoppiata, passando da 46,2 a 80,5 anni per gli uomini e da 48,9 a 84,7 anni per le donne; uno studio del 2009 sull’invecchiamento nei Paesi industrializzati annunciava che un bambino su due dei nati allora sarebbe diventato centenario. Dunque, che fretta c’è di crescere, perché darsi da fare?

Le civiltà del passato segnavano con riti d’iniziazione il passaggio dall’adolescenza all’età adulta: una sorta di frattura nel tempo esistenziale, al di là della quale il giovane entrava a pieno titolo nella comunità assumendone pienamente diritti e doveri. Anche il servizio militare era un rito analogo; e al liceo c’erano gli esami di «maturità» (ha ancora senso chiamarli così?). Queste fratture sono quasi rimarginate.

La lunghezza del percorso induce a segnare il passo e a indugiare in soste dilettevoli. Ma a me piace ancora la saggezza degli antichi, che vivevano meno a lungo, ma pienamente. Come Seneca, che al giovane Lucilio scriveva: «Guarda alla qualità della vita, non alla sua grandezza: non è la durata che conta, ma l’uso che ne fai. Non sono gli anni né i giorni a farci vivere a lungo, ma l’animo».