«Quando la pandemia da Covid 19 sarà finita, le istituzioni di molti Paesi verranno percepite come fallite. Se questo giudizio sia obiettivamente equo è irrilevante. Di sicuro il mondo dopo il coronavirus non sarà più lo stesso». Questa lucida analisi del momento che stiamo vivendo l’ha esposta Henry Kissinger in un editoriale pubblicato nelle scorse settimane sul «Wall Street Journal». L’anziano professore di Harvard, quasi a voler dare forza al suo giudizio, nel prosieguo ha voluto precisare che, anche se «l’emergenza sanitaria sarà temporanea (…) le democrazie del mondo devono difendere e sostenere i loro valori illuministici» se vogliono evitare che lo sconvolgimento politico ed economico scatenato dal virus possa durare per generazioni.
A dispetto del suo 97.mo compleanno (raggiunto il 27 maggio) l’ex-segretario di Stato americano sfoggia una forma psico-fisica in mirabile sintonia con la sua straordinaria statura di politologo. E non a caso tra i tanti personaggi politici le cui opinioni sono ascoltate a livello di grandi potenze e di enti sovranazionali, pochi sono coloro in grado di esibire la stessa autorevolezza. Presentare Henry Kissinger in poche righe non è impresa facile e alla fine prevale sempre il giudizio con cui è stato immortalato da Oriana Fallaci in una famosa intervista: un «cavaliere solitario» delle relazioni internazionali. Sulle radici europee e sull’origine ebraica tedesca, il giovane Kissinger ha saputo innestare i metodi diretti e la concretezza della tradizione politica americana, strumenti che gli hanno consentito di primeggiare a lungo nella sua azione come consigliere di presidenti, segretario di Stato e consigliere della sicurezza nazionale, quindi sempre ai massimi livelli nell’ambito dell’amministrazione americana.
Ma non è nella folta giungla del suo passato politico, o nell’elenco dei riconoscimenti importanti e dei prestigiosi meriti conseguiti in politica estera che si può individuare il ritratto più esaustivo. Piuttosto è dalla spregiudicatezza di certe scelte o prese di posizione, anche quelle poi messe in discussione perché gravate di responsabilità negative, che si ricava il ritratto dell’Henry Kissinger pensatore paladino della realpolitik, capace di convincere e talvolta anche di meravigliare con le sue analisi.
La sua carriera inizia in parallelo con i trascorsi di soldato semplice degli Stati Uniti dov’era giunto adolescente con i genitori per sfuggire al nazismo poco prima della ultima guerra mondiale. Arruolato appena acquisita la cittadinanza e subito ingaggiato (aprile 1944) in virtù del suo tedesco perfetto come aiutante del generale comandante della divisione inviata a Krefeld, Kissinger riuscì a portare a compimento, benché soldato semplice e nel giro di poche settimane, la riorganizzazione dell’amministrazione della città, accelerandone il ritorno alla normalità. Promosso sergente e inviato in altre città a insegnare i suoi metodi (anche nell’individuazione di nazisti in fuga), a guerra conclusa, nonostante le offerte per una carriera militare o nei servizi segreti, preferì tornare agli studi sino alla laurea in legge conseguita nel 1950 ad Harvard, ateneo in cui ha poi svolto una lunga e prestigiosa carriera professorale.
In parallelo iniziò a muovere i primi passi anche nell’arena politica, avvalendosi della protezione di Nelson Rockefeller che lo volle direttore della sua Fondazione, preparandolo alle consulenze con l’amministrazione governativa, dapprima con i presidenti Kennedy e Johnson, poi agli incarichi governativi con Nixon e Ford. Al di là del suo prestigio politico – l’apice furono i negoziati segreti con Mao e la riapertura delle relazioni diplomatiche con la Cina – il lato che maggiormente mi affascinava è sempre stato quello del Kissinger intellettuale e comunicatore, affinatosi negli anni come saggista ed editorialista in parallelo con l’insegnamento universitario.
Numerosi i suoi libri di successo, soprattutto quelli che rievocano e spiegano le principali tappe storiche della sua attività a capo della diplomazia statunitense (dai vari negoziati nel periodo della presenza armata americana nel sud-est asiatico, sino ai ritratti dei grandi «leader» e alle testimonianze, quasi diaristiche, della sua presenza alla Casa Bianca). Vasta anche la serie di saggi, tra i quali mi è caro un ormai introvabile libretto, edito da Mondadori, che riunisce tre saggi, tra cui il celebre Policentrismo e politica internazionale in cui Henry Kissinger traccia una lezione di scienze politiche radiografando pregi e difetti di amministrazioni e burocrazie occidentali.
Tornando all’editoriale sul «Wall Street Journal» citato all’inizio, dopo un giudizio sostanzialmente positivo su quanto gli Stati Uniti e i vari Stati hanno deciso per contenere la pandemia, Kissinger si è preoccupato anche di suggerire maggiore attenzione per i problemi a media scadenza, sostenendo che quanto fatto sinora non deve adombrare un compito urgente di tutte le amministrazioni occidentali: avviare il passaggio a un ordine mondiale post-coronavirus. Nessun Paese, secondo l’ex-Segretario di Stato, può pensare di superare la crisi da solo, fuori da «una visione e un programma globale».