Lunga vita ai Comuni

/ 29.03.2021
di Orazio Martinetti

Chissà se il Comune è ancora principio e culla della democrazia, come si insegnava un tempo nelle scuole durante l’ora di civica. Di certo la popolazione di questo Cantone è rimasta a lungo aggrappata ai simboli dell’appartenenza locale (municipalismo), fonte di incessanti rivalità (campanilismo). Questo costume ha nutrito per decenni una copiosa letteratura; i quadretti di paese più sapidi e divertenti uscirono dalla penna di autori come Giovanni Anastasi, don Francesco Alberti, Sergio Maspoli. Commedie, fogli volanti, opuscoli anonimi e composizioni satiriche («bosinate») proliferavano soprattutto alla vigilia della consultazione comunale, alimentando il chiacchiericcio nelle osterie e sui sagrati nel dopo messa.

Ogni partito si dilettava a schernire la parte avversa, in un clima di certame senza fine. Il fatto che nelle comunità piccole e medie tutti si conoscessero rendeva la contesa un duello rusticano e la cittadinanza una vociante tifoseria. D’un tratto riapparivano gazzette di cui s’era persa memoria, nonché figure come il politicante dalla lingua sciolta e il «galoppino» spedito a persuadere gli indecisi o gli ignavi.

Nel corso degli ultimi quarant’anni questo ecosistema politico si è via via disgregato, in conseguenza dell’accresciuta mobilità e dell’ipertrofia delle aree urbane. I Comuni rurali si sono ritrovati dinanzi a ostacoli non più sormontabili con le proprie forze. Privati delle energie fresche, migrate in città, non rimaneva che una soluzione: l’aggregazione. Pur fra mille perplessità e obiezioni, il programma aggregativo è andato avanti, permettendo a parecchi nuclei di sopravvivere, a volte di rinascere, come accade alle vallate alle spalle dei grossi centri, diventate valvole di sfogo e rifugio specialmente in quest’epoca di pestilenza.

Ciò riconosciuto, occorre tuttavia tener d’occhio il rovescio della medaglia. Sono le ombre che spesso sfuggono, specie alle nuove generazioni nate e cresciute in ambiente urbano. Il primo lato è la progressiva omologazione dell’orizzonte visivo. Le conurbazioni che danno vita alla «città Ticino» hanno via via abraso la trama sottostante, ovvero il patrimonio storico, linguistico, etnografico e devozionale che ha preceduto l’attuale corsa all’edificazione. Di questo passato sono sopravvissuti solo segni sparsi, interstizi, lembi di terra, resti individuabili solo aguzzando la vista: filari assediati dal cemento armato, terrazzi e campetti inselvatichiti, muretti a secco in parte crollati, stallette diroccate, qualche pianta da frutto ormai esausta… Non è questione di nostalgia. A giudizio di molti psicologi e filosofi, ma anche di scrittori, fotografi e cineasti, nasce proprio qui, in questo «spaesamento» il disagio – un tempo si diceva l’«alienazione» – che affligge noi contemporanei. L’esplosione dello spazio costruito ha quasi cancellato ogni memoria rurale, quel substrato che per secoli ha permesso agli abitanti di orientarsi nel territorio attraverso il fitto reticolo dei toponimi.

Il secondo lato oscuro riguarda l’anonimato che ormai caratterizza molti Comuni della cintura urbana. Sulle colline circostanti sono spuntati complessi residenziali di foggia sanatoriale, destinati ad accogliere le famiglie logorate dalla frenesia cittadina, oppure provenienti da contrade lontane. Presenze perlopiù estranee alle tradizioni del luogo, più interessate alla quiete della campagna che alla vita comunitaria. Si spiega anche così la decrescente partecipazione agli appuntamenti elettorali comunali, tendenza che il voto per corrispondenza non ha certo contribuito ad arrestare.

Bisognerebbe, per rianimare lo spirito pubblico, mettere in campo processi d’integrazione, iniziative di graduale inserimento dei nuovi venuti nei consessi patriziali, scolastici, sportivi e ricreativi. Impresa ardua, destinata a scontrarsi con resistenze ataviche, ma anche con logiche che le amministrazioni comunali non riescono più a controllare, perché determinate dalle strategie d’investimento dei grandi gruppi finanziari ed immobiliari. Eppure il comune è una cellula che deve rimanere vitale, un «plesso nerveo» come amava dire Carlo Cattaneo dal suo osservatorio di Castagnola: «I comuni sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà. (…) È un errore che l’efficacia della vita comunale debba farsi maggiore colla incorporazione di più comuni in un solo, vale a dire, con una larga soppressione di codesti plessi nèrvei della vita vicinale».