L’altro giorno, cercando notizie su una storica pasticceria perduta, scopro che a Pallanza ci sono diverse sculture di Arturo Martini (1889-1947). A vent’anni avevo divorato i suoi Colloqui sulla scultura (1997) – riedizione riveduta fresca di stampa a cura di Nico Stringa dei Colloqui (1968) ai tempi in parte censurati – al punto che certe frasi mi sono rimaste tatuate e potrei citarle a braccio. Libro caustico e oracolare composto da ventun incontri a Venezia con il giornalista Gino Scarpa al quale confida pensieri del genere: «Lasciare l’opera in balia delle intemperie umane: se è opera vera, non ne è tocca. Come pisciare in mare: il mare non cambia di colore». Dal vero però non avevo mai visto niente, solo le foto di un catalogo della grande mostra nell’autunno 1967 a Treviso. A Brissago prendo il bus delle dieci. Come dice Tito Cornasidio alle moglie Pomponia in Sotto la sua mano (1974) di Piero Chiara: «Si va a Pallanza».
La malinconia del lago verso fine gennaio viene rimarginata, a tratti, da una distensiva bruma. Al Museo del Paesaggio di Pallanza, frazione di Verbania dal 1939, c’è l’ultima opera di Martini: Testa di ragazza (1947). Sotterrato per quasi due decadi, mi sembra così ora di rendergli tardivo omaggio. Scendo in piazza Gramsci, un monumentale canforo si prende la scena. Dalla maestosa chioma sempreverde del Cinnamomum camphora al museo non sono neanche cento metri. All’inizio di via Ruga, il portale in granito bianco di Montorfano introduce alle scale che portano su nel cortile di Palazzo Viani-Dugnani. Sobrio palaz-zo barocco della metà del seicento, dal 1909 sede di un museo preveggente: già all’epoca Antonio Massara (1878-1926) intuisce il pericolo di rovina – turismo, industria, edilizia speculativa – per il paesaggio e lo pone in primo piano proclamando la «necessità di una rinnovata educazione spirituale». La buonanima del Massara, oggi, altro che rivoltarsi nella tomba.
Percorro la gipsoteca Troubetzkoy e salgo le scale. Le foglie di una secolare Magnolia grandiflora fanno capolino dalle finestre. La guardiana legge il giornale, balza subito in piedi e si offre per una visita guidata. Gentile – i guardiani dei musei di solito sono piuttosto chiusi in se stessi, alcuni ti mettono perfino a disagio guardandoti con sospetto – ma amo andare in fuga. Passo veloce tra le stanze adibite alla mostra in corso, abitate un tempo da Paolo Solaroli, avventuriero ispiratore, pare, di un personaggio salgariano: Yanez, la spalla di Sandokan. Dopo paesaggi non male ma forse troppo leziosi, approdo tra le opere del grande scultore trevigiano oggi un po’ misconosciuto. Eccola, là in fondo a sinistra, la gloria maggiore di questa collezione spiaggiata qui sulle sponde del Verbano per via della sua amata Egle Rosmini che era di queste parti. Lo sfondo delle mura è color pervinca, il parquet scricchiola, lo sguardo di ragazza in terracotta chiara è stupefatto. La profondità dell’ultima testa di Arturo Martini a Pallanza (213 m), trentacinque centimetri, corrisponde alla sua altezza. I capelli, delicatamente graffiati di lato si raccolgono in uno strambo chignon che dalla parte opposta pone i capelli in una prospettiva conigliesca. Il collo lo si accarezza con gli occhi. Il tutto poggia su un rettangolo in legno tarlato. I delicati buchini dei tarli, senza nessuna intenzione, si accordano con la porosità della pelle dovuta al materiale etereo e refrattario dell’argilla cotta ad alta temperatura.
«Martini pensa in terracotta» scrive Bontempelli nella sua monografia del 1939. Un pensiero che si ricollega all’arte etrusca. «Loro facevano le statue come le nostre donne fanno i ravioli» se ne esce ancora meravigliosamente Martini nei Colloqui. Confessa inoltre di essere stato due anni al Museo nazionale etrusco di Valle Giulia, spesso fuori orario grazie a un permesso speciale del direttore Giulio Giglioli, a studiarle «E go spacà anche statue per vedere come erano fatte». E poi, rincarando ancora la dose, in un’altra delle sue grosse sparate: «Mi son el vero etrusco. Loro mi hanno dato un linguaggio. Io li ho fatti parlare. Avrei potuto fare mille statue come le avrebbero immaginate loro». In realtà mi sbalordiscono quasi di più queste sue uscite esagerate che non tante sue sculture, anche se questa è allo stesso livello di stupore. Di colpo mi viene in mente perché al contempo mi era familiare, l’avevo già vista sulla copertina di un libro che riuniva tre variazioni di Antigone: oltre a Sofocle, Brecht e Anouilh. Un velo di tragicità c’è, vero, eppure prevale forse una certa trasognatezza triste da Alice.
La guardiana mi ha raggiunto, ha un disperato bisogno di parlare. Deve per forza dirmi qualcosa ma io non voglio sentire niente e guardare in silenzio. Rifugiarmi semplicemente nello sguardo della ragazza smagata, assentarmi nella sua aria attonita e basta. Al limite potrei citarvi un’ultima cosa detta da Arturo Martini a Gino Scarpa: «in fondo il mio lavoro non ha che una giustificazione: contraddire la mia assenza».