La coincidenza non è casuale. A distanza di una settimana, il 15 luglio «La Lettura» e il 22 «Il Sole 24 ore», autorevoli domenicali italiani, hanno dedicato ampio spazio all’ozio, ma un ozio ormai legittimato, sul piano morale e sociale. Infatti, quello che era il padre di tutti i vizi si presenta, adesso, come un comportamento ragionevole, addirittura l’alternativa virtuosa all’eccesso attivista, imposto dall’epoca. Tanto da animare una corrente di pensiero, diffusa, in particolare, fra gli intellettuali anglosassoni «liberal». È il caso del filosofo irlandese Brian O’Connor, autore del saggio Idleness, che, intervistato su «La Lettura», dichiara: «Ozio dunque sono». Cioè, sottraendo il proprio tempo a un obiettivo preciso, si conquista uno spazio di libertà, in cui ritrovare se stessi, mettersi alla prova e sfidare l’obbligo della performance a ogni costo.
Ora proprio quest’esigenza di contrapporsi al principio, oggi dominante, della produttività, addirittura frenetica, in vista del successo soprattutto economico, traspare anche dalla riflessione che monsignor Gianfranco Ravasi propone, sul «Sole 24 ore». Che non manca di sorprendere, a cominciare dal titolo: «Vivere felici e indolenti». Da par suo, in un linguaggio scorrevole e arguto, denuncia le derive assurde dello strafare, male del secolo, per poi ribadire la necessità della pausa: destinata «alla pacatezza, alla quiete, alla ponderatezza». Niente da spartire, insomma, con la pigrizia «che rimanda allo sfaticato, al fannullone, al lavativo». Sul piano etico, la distinzione è chiara: l’ozio non va inteso come una scappatoia dal dovere di lavorare. E Ravasi, dopo aver citato San Paolo: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi», conclude ricordando nientemeno che il «Chi non lavora non fa l’amore» di Celentano.
Ma al di là delle disquisizioni filosofiche e morali su un tema controverso, sta di fatto che, ormai, l’ozio riabilitato si è tradotto in nuove scelte di vita, dagli effetti sempre più visibili nella nostra quotidianità. Si deve parlare di una svolta, persino rivoluzionaria, nei confronti del lavoro che, per i giovani, ha perso la priorità di un obiettivo insostituibile e ha coinciso con la fine di un periodo storico, all’insegna di un carrierismo ossessivo. E così, intorno a noi, continua a crescere il numero dei singles e delle coppie che, grazie alla flessibilità aziendale, optano per l’orario parziale, accettando, ovviamente, una riduzione del salario. Ciò che comporta una diversa percezione dei valori, rispetto alle generazioni precedenti, coinvolte nella spirale guadagni-consumi, che aveva caratterizzato i decenni del boom. Oggi, persino nella Svizzera stakanovista, il culto del lavoro sembra soppiantato da quello del tempo libero, in cui investire ambizioni e fantasie, magari da inventare.
Del resto è un’aspirazione che concerne anche i meno giovani, i futuri pensionati che tendono ad anticipare l’addio alla scrivania, alla cattedra o al laboratorio che sia. In alcune professioni, è il caso degli insegnanti, il distacco generazionale con gli allievi diventa incolmabile e giustifica la scelta. Meglio andarsene prima. D’altra parte, anche l’agognata quiescenza, problema politico e assicurativo più che mai attuale, non è indolore nelle sue conseguenze psicologiche. I sogni rimandati al «dopo» durante gli anni attivi, spesso non si realizzano, per evidente incapacità dei diretti interessati.
Quel famoso spazio, tutto a tua disposizione, auspicato dai fautori dell’ozio creativo, rimane lettera morta. Come dire, il lavoratore, che si annoiava lavorando, trasferisce lo stesso sentimento di fronte alla sua vacanza illimitata. In fin dei conti è una questione di dna: tu appartieni al lavoro e il lavoro ti appartiene, attraverso un legame di reciprocità in cui si rischia di rimanere intrappolati. Ma, a ben guardare anche l’ozio riabilitato rimane vuoto, senza l’intervento del lavoro.