L’orangerie del parc de la Grange a Ginevra

/ 31.07.2023
di Oliver Scharpf

Trotterello quasi, dirigendomi a occhi chiusi verso l’orangerie desiderata da Guillaume Favre (1770-1851): erudito e bibliofilo. Eppure vent’anni fa, quando abitavo qui vicino e amavo questo parco, passandoci via spesso, credo di non essermi mai neanche accorto fosse un’orangerie. L’orangerie del parc de la Grange per me è sempre stata soltanto quella, poco distante, dove d’estate c’era il teatro. Sottovalutata e ignorata anche perché ridotta a buvette turistica ingombra di frighi e sedie orribili di plastica, per di più gestita da vecchiette antipatiche legate alla Lega svizzera di donne astinenti. E un bel pomeriggio caldo verso la fine di luglio, epurata da tutto, riecco l’orangerie (386 m) neoclassica del parc de la Grange a Ginevra. La sua bellezza austera, grazie al ritorno dell’armonia, è ritrovata. Attribuibile a Jean-Jacques Vaucher (1766-1841), architetto occupatosi anche della biblioteca annessa alla villa perché non c’era più posto per le migliaia di libri, è stata costruita in pietra arenaria chiara nel 1828-29.

Balza agli occhi, oggi, tutta l’ampiezza dello spazio creato dai cinque archi a tutto sesto, ritmati da sei colonne toscane. Sei tavolini metallici agili e dodici sedie da giardino di un bel verde Wimbledon, in tinta con gli infissi delle vetrate laterali e quella della cucina, lì davanti, mostrano già il buon gusto del nuovo corso che si riallaccia a cento anni fa. Inaugurata l’ultimo weekend di giugno 1920 come crèmerie, in accordo con le clausole della donazione alla città da parte di William Favre (1843-1918), nipote di Guillaume, di tutta la proprietà – comprata nel 1800 a un banchiere caduto in rovina dal bisnonno François che aveva fatto fortuna come armatore a Marsiglia – sembra essersi rituffata a come appare nelle cartoline in biancoenero. Restaurata a regola d’arte qualche anno fa e affidata a giovani spigliati giunti alla terza stagione, il resto dei tavolini disseminati sulla terrazza, sempre di quelli classici pieghevoli verde Wimbledon, sembrano quelli di una volta. Inoltre, quattro aranci in vasi enormi e due limoni più piccoli, sembrano ristabilire al contempo la funzione originaria di questa orangerie in uso fino all’entrata in scena della seconda nel 1856.

Entro dentro a dare un’occhiata e prendere una limonata. Il pavimento è particolare per via del mosaico tipo granito della reputata ditta Patrizio & Pellarin e risale al 1889. Sul muro, rimaste dal periodo quando William Favre ne aveva fatto un luogo di memoria, ci sono un paio di reliquie famigliari. Un calco di un ritratto-bassorilievo del cinquecentesco antenato Gaspard e sua moglie, proveniente dalla loro casa in rue du Rhône. E sopra, un portale fregiato di foglie di alloro e acanto, di un’altra casa Favre demolita secoli fa. Aggiunta recente invece, una placca commemorativa per Alice Favre (1851-1929), sorella di William e prima presidente della Croce Rossa nel 1914. Alle 13:52 mi siedo a uno dei tavolini elogiati prima, una trentina abbondante in tutto, quattordici dei quali occupati, all’ombra degli aceri campestri. A sorseggiare la limonata maison non irresistibile ma poco importa, visto l’ombra rinfrescante di quest’angolo incredibilmente ventilato da una misteriosa arietta. E l’atmosfera di quiete emanata, come un secolo fa, dalle giovani mamme sedute con le carrozzine e i cani.

Sul tetto corre una balaustrata, mentre sotto, ho notato un attimo fa ma mi sono dimenticato di dirvelo, c’è un cornicione a dentelli. Da qui, adesso, sulla terrazza ex (nel 1886) campo da tennis, si nota invece un tocco di verde pistacchio che non mi dispiace: il bancone. Unico demerito, i troppi ombrelloni che levano la vista dell’orangerie orientata a sud-ovest. La cui prima traccia iconografica è un disegno a matita di Edmond Favre (1812-1880), figlio dell’erudito bibliofilo (mineralogia, ellenismo, mitologia nordica) committente della prima orangerie di questo parco dove un tempo passeggiavo e facevo picnic galanti seri. Uno scorcio di lato, vista da sopra nell’agosto 1830, tra gli alberi. Confortata ancora dai vecchi Taxus baccata e ben frequentata, ora mi commuove la vita di questa orangerie ottocentesca ribattezzata guinguette. Termine francese d’altri tempi per quei posti di bevute e balli in estati dall’aria un po’ Renoir. Un levriero italiano, di nome Shelley o Sherry, sonnecchia.