Un amico giornalista mi domanda: «In questo periodo cosa ti manca di più? Rispondo senza esitare: «Il salone del libro di Torino». Ho avuto la fortuna di seguire tutte le edizioni a partire dalla prima. Ho nostalgia non tanto dei dibattiti e delle presentazioni, quanto del piacere di scoprire case editrici di cui ignoravo l’esistenza, di collezionare cataloghi. Il lunedì, ultimo giorno, gli editori di nicchia offrivano i loro libri a prezzi molto scontati. Negli stand più grandi una sedia e un tavolino ospitavano gli scrittori impegnati a scrivere dediche agli acquirenti. Ricordo lunghe file davanti ad Andrea Camilleri e a Hugo Pratt. Sognavo che prima o poi toccasse anche a me l’occasione di sedermi a uno di quei tavolini. Il gran giorno arriva nel 1995, quando Garzanti pubblica il mio romanzo Torino lungodora Napoli, un giallo.
Dopo aver provato un’infinità di combinazioni davanti allo specchio del guardaroba, alla vana ricerca di quella trasandata eleganza che secondo me caratterizza i veri scrittori, finisco per precipitarmi al Salone indossando la solita giacca grigia da funzionario. Allo stand di Garzanti non c’è ancora la coda di lettori in paziente attesa, così ho tutto l’agio di sistemarmi seduto al tavolino bene in vista sotto un cartello che segnala la mia presenza di fianco a una pila di libri in attesa dei miei fan. Lo stand è bello grande e già un discreto numero di visitatori si aggira, curiosando fra gli scaffali e sfogliando libri. Nessuno mi fila, sono invisibile.
Nasce il problema dello sguardo: dove indirizzarlo? Non posso guardare dritto in faccia alle persone, potrebbero pensare che stia implorandole di comprare il mio libro. Visto che sono seduto e gli altri in piedi, decido di tenere lo sguardo orizzontale ma presto non ne posso più di osservare delle pance. Facendo roteare qua e là gli occhi incrocio lo sguardo della cassiera che dalla parte opposta dello stand mi spedisce sorrisi di complice incoraggiamento. Potrei mettermi a leggere, ma cosa? Il mio libro no, dal momento che l’ho scritto si suppone che l’abbia anche letto. Il libro di un altro autore della Garzanti? Nemmeno, manderebbe un segnale equivoco, direbbe ai potenziali acquirenti comprate questo anziché il mio.
Finalmente si presenta il primo lettore, una signora molto anziana, ha già il libro aperto per una dedica: «Scriva: alla mia mamma, con tanto affetto. Buon compleanno» «Devo proprio scrivere così, alla mia mamma?» Eseguo mentre penso: «Quanti anni avrà questa mamma? Il mio libro è pieno di scene hard, non le faranno male?». Fatta la prima dedica, ecco rotto il ghiaccio. Si accosta una stupenda ragazza con un sorriso smagliante: «Vorrei che dedicasse il suo libro a mia nonna che è una sua fan». Mi vengono i primi dubbi sull’età media del mio target. Arrivano due signore, si accostano al tavolo e una dice all’altra: «Io il libro l’ho già letto e te lo consiglio, sono sicura che ti piacerà». L’amica è poco convinta: «Ma secondo te il libro rispecchia il carattere del suo autore?». L’altra non ha dubbi: «Sì!». La potenziale acquirente ancora esita: «Questo è un giallo che si conclude o resta in sospeso? A me non piacciono i gialli che non finiscono». Parla quella che mi fa da promoter: «No, no, sta tranquilla, si conclude». È fatta, un altra copia è venduta.
Arriva un signore: «Mi mette una bella dedica?». «A chi lo devo dedicare?» «A me» «E lei come si chiama?» «Come sarebbe, non si ricorda più chi sono?» «Mi perdoni, sa l’emozione, è la prima volta...» «È impossibile che non si ricordi, ci siamo conosciuti due estati fa in val d’Aosta, a Torgnon. Io scendevo dal sentiero e lei stava raccogliendo delle piantine, le ho domandato cos’erano e lei ha risposto sedano selvatico». L’unica è mentire: «Adesso me lo ricordo anch’io, purtroppo continua a sfuggirmi il suo nome». «Sarà l’età».
Una piaga è rappresentata dagli ex colleghi. Eccone uno: «Ma non sai più cosa fare? Ti sei messo a vendere libri?» «Veramente sono qui a promuovere il mio». «Non mi dire che tu hai scritto un libro». «Lo ammetto, sì». «Ma allora chiunque può scrivere un libro». «Beh, effettivamente la legge non lo vieta». «E tu come hai fatto a scriverlo?» «Mi sono seduto a tavolino e ho messo giù una parola dopo l’altra» «Ah, è così. E quanto tempo ci metti a scrivere una pagina?» «Non te lo so dire. Non ho fatto l’analisi dei tempi e metodi». «Male, così non saprai mai se ti conviene scrivere o fare qualcosa di più redditizio». «Uno non si mette a scrivere per diventare ricco» «Su questo puoi stare più che sicuro», mi incoraggia l’ex collega. «Su, fammi una bella dedica».
Gliela faccio, prende il libro, controlla, è soddisfatto e va via senza pagare, convinto che io gli abbia fatto un omaggio. A questo servono gli amici.