L’Occidente senza più leader

/ 18.07.2022
di Aldo Cazzullo

Il Regno Unito senza un premier, l’Italia in piena crisi politica: altrettanti favori a Putin. È l’estate dell’Occidente senza leader, o dai leader dimezzati. Nella storia britannica Boris Johnson non è un passante. È l’uomo che ha portato il Regno Unito fuori dall’Europa. La sua caduta sembra confermare che la Brexit non è stata una grande idea. Che il sovranismo e il nazionalismo sono una reazione comprensibile ma controproducente al mondo globale, e non mettono nessuno al riparo dal drammatico fenomeno del 2022, l’impennata dei prezzi. Quasi una famiglia britannica su dieci – l’ha scritto «The Guardian» – non ha abbastanza da mangiare: il cibo costa troppo e mancano le sterline per acquistarlo. Questo non significa che la caduta di Johnson sia di per sé una buona notizia per i sostenitori dell’Europa, del libero scambio, della collaborazione tra i Paesi; né per affrontare le emergenze globali. La caduta di Johnson conferma anzi che il fronte occidentale è più che mai fragile. Come sono fragili le varie leadership.

A Parigi Emmanuel Macron è appena stato rieletto, ma non ha conquistato la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e ha davanti a sé 5 anni difficili. A Berlino Olaf Scholz non ha l’esperienza e probabilmente neppure la statura di Angela Merkel. A Madrid il premier socialista Pedro Sanchez si è visto per la prima volta superare nei sondaggi dalla destra popolare, che però – si vota l’anno prossimo – non avrebbe la maggioranza assoluta neppure con gli estremisti di Vox. A Washington Joe Biden si avvia verso una disastrosa sconfitta alle elezioni di metà mandato a novembre, con probabile rinuncia alla ricandidatura, senza che i democratici abbiano un leader pronto e senza che i repubblicani riescano a liberarsi del fantasma di Trump.

Poi c’è il caso italiano. Mario Draghi, presidente del Consiglio molto stimato in ambito internazionale, ha visto frantumarsi la sua maggioranza; l’unico partito di opposizione è il primo nei sondaggi; leghisti e grillini minacciano di far saltare tutto. In questo contesto, le parole di Putin – «in Ucraina abbiamo appena iniziato» – possono suonare come una sinistra smargiassata, ma ci ricordano pure che, se è sempre difficile misurare il consenso di una dittatura, è sempre facile misurare il consenso di una democrazia. E in Occidente la democrazia rappresentativa, nelle sue varianti, non è mai stata così sotto attacco. La pandemia e la guerra possono suonare un richiamo all’ordine; ma il segno del nostro tempo resta la rivolta contro l’establishment, contro le élites, contro il sistema. Al di là delle bizzarrie del personaggio, Johnson aveva tentato proprio questo: incanalare l’ondata populista nell’alveo della politica tradizionale, del partito conservatore, della propria personale fortuna. E finora gli era andata bene. Boris era sindaco di Londra. Ma aveva un rivale, fin dai tempi dell’adolescenza a Eton: David Cameron, allora primo ministro. Quando Cameron rinegoziò il rapporto di Londra con l’Europa e lo sottopose a referendum, Johnson scommise sul no. Vinse la scommessa, sottrasse la vittoria a Nigel Farage – vero antisistema – fece il ministro degli Esteri di Teresa May, divenne premier e stravinse le elezioni del dicembre 2019 con lo slogan «Get Brexit done»: abbiamo voluto la Brexit, ora facciamola. Johnson non è caduto per la gestione della pandemia, né per il protagonismo sull’Ucraina, né tanto meno per le proprie bizzarrie. La vita privata disordinata, i party, i collaboratori sbagliati sono storie che – quando il leader, il partito, il governo sono in salute – scivolano via. Diventano fatali quando le cose vanno male.

Il declino delle leadership è uno dei segni del nostro tempo. Dove sono le Thatcher e i Blair, i Kohl e le Merkel? A prescindere dagli errori – la poll tax e la guerra in Iraq, i fondi neri della Cdu e la scarsa generosità con gli alleati europei – quelli erano primi ministri, quelli erano cancellieri. Adesso i leader sembrano fungibili, come i segretari del Pd in Italia. Sarkozy rischia la galera, Hollande è ricordato solo per i suoi amori. Difficilmente Scholz aprirà un’era. L’altro ieri toccava a Cameron, ieri a May, ora a Johnson, domani chissà; la regina Elisabetta seppellisce politicamente un altro premier, ma neppure lei è eterna. Resta un dato: il populismo sta riprendendo fiato grazie alla ripresa dell’inflazione, alla corsa dei prezzi del gas, del carburante, del cibo, delle materie prime, all’impoverimento del ceto medio, alla disperazione delle classi popolari. O i governi in carica riescono a fermare la speculazione, senza aumentare le tasse sugli onesti e senza caricare di altro debito le generazioni future, oppure faranno la fine di Johnson. E sui tormentati confini orientali d’Europa si allungherà ancora di più l’ombra di Putin.