Montagne, laghetti alpini, torrenti spumeggianti, orridi… la pandemia ha sospinto molti a cercar rifugio e sollievo nelle alte quote, in luoghi poco frequentati dall’uomo e quindi anche dal virus. I media sociali rigurgitano di fotografie ritraenti comitive di gitanti in cammino verso alpeggi e baite. Ogni cantone ha colto l’occasione per reclamizzare le proprie bellezze e i propri itinerari. Niente vacanze all’estero, riscopriamo la Svizzera: questo il messaggio che operatori turistici ed albergatori si sono incaricati di diffondere, accompagnando l’appello con afflati patriottici. Dopo mesi di chiusura, anzi di clausura, il virus ha come azzerato la voglia di salire su un aereo o su una nave da crociera, e questo nonostante i governi abbiano allentato i provvedimenti restrittivi.
Tale riscoperta è indubbiamente benefica, al netto degli interessi e delle convenienze contingenti. Dopo tanto discorrere di tutela, di rispetto del territorio, di turismo sostenibile, forse qualcosa cambierà nel modo di osservare l’ambiente circostante, l’ecosistema fragile in cui ci ha gettato l’ipermodernità degli ultimi decenni: un vortice in cui sembrava impensabile fermarsi e coltivare atteggiamenti contemplativi. L’obiettivo era raggiungere gli angoli più remoti ed esotici del pianeta, nell’incuranza totale delle conseguenze.
Il virus, insomma, ha costretto tutti a rivedere programmi e viaggi. Ci ha obbligato ad accorciare lo sguardo, riportandolo nella cerchia del nostro vivere quotidiano. In questo orizzonte visivo è tornato a vivere il «paesaggio», concetto non facile da definire ed afferrare – come spiega Claudio Ferrata nel suo ultimo saggio, Nelle pieghe del mondo – ma comunque sempre presente nell’immaginario individuale e collettivo. Il paesaggio, nelle sue articolazioni e mutevolezze spaziali e temporali, è l’abito che il territorio indossa nella sua evoluzione storica. Scrutarlo da vicino – e qui soccorre l’occhio del geografo – permette di coglierne la forza evocativa, quell’energia primordiale che lo rende abitabile e, si spera, gradevole. Il paesaggio, avverte Ferrata, non è sinonimo di natura, ossia di universo incontaminato, rimasto ai margini dell’attività umana, ma luogo di contaminazioni continue, con esiti anche opposti, sfocianti nella preservazione oppure nella devastazione.
Ferrata, con questo mini-trattato edito da Meltemi, ha voluto celebrare un anniversario, i vent’anni della Convenzione europea del paesaggio, documento poco noto e sicuramente sfuggito ai più, il quale statuisce che il paesaggio «designa una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Lo snodo-chiave è la «percezione», ovvero quanto filtra attraverso la retina e dunque nel sistema neuronale, condizionando lo stato emotivo di ciascuno di noi. Nell’interazione delle percezioni positive o negative traiamo gioia o dolore, piacere per una prospettiva che consideriamo armoniosa, oppure rigetto per un habitat inquinato e invaso da rifiuti.
Se questo è vero, ossia se il paesaggio è frutto dell’intreccio tra natura e cultura, occorre darsi una coscienza del limite: qual è il confine oltre al quale non è saggio spingersi, pena lo squilibrio irrimediabile del rapporto tra i due fattori? Dove, lungo quale orlo arrestarsi nella corsa allo sfruttamento delle risorse naturali, del suolo e delle acque? Ecco il senso delle Convenzioni come quella europea sul paesaggio, oppure quella precedente del 1991 riguardante la difesa delle Alpi, sottoscritta sotto il patrocinio dell’Ue e da sette paesi interessati alla salvaguardia dell’arco alpino: Austria, Confederazione elvetica, Francia, Germania, Italia, Slovenia e Liechtenstein.
Chissà se il Covid farà maturare una nuova consapevolezza, vera e non di comodo, nei confronti del mondo alpino e della sua biodiversità. C’è da augurarselo, perché iniziative e accordi non hanno finora impedito l’assalto alle catene montuose, prima con dighe, tralicci, elettrodotti, strade e gallerie, e ora con gigantesche pale eoliche. A conferma di quanto si diceva sopra, ovvero che la natura rimane viva soprattutto nella nostra mente, come visione consolatrice in caso di «malizia dei tempi», ma non più come esperienza reale. L’occhio del geografo può aiutarci ad aguzzare la vista, a rivedere le nostre categorie mentali e soprattutto i nostri comportamenti.