C’era una volta, a nord di Kloten, uno stagno chiamato goldene Tor: porta d’oro. Le mamme dicevano ai bambini di non avvicinarsi. Non tanto per la profondità, ma per via di insidiosi buchi senza fine dai quali sgorgava una fine sabbia d’oro. Ancora oggi si racconta di un bambino che un pomeriggio, tutto accaldato, si avvicina allo stagno per rinfrescarsi con manate d’acqua in faccia. Un vortice si forma di colpo e tra i flutti, emerge una sirena; il bimbo vuole scappare via ma viene rapito dal suo sorriso. Nota poi un anello luccicante al dito, la sirena glielo mette sotto il naso, vorrebbe sfilar-glielo in fretta. In un batter d’occhio viene afferrato e trascinato sott’acqua. Un attimo prima un urlo si è sparso tra i campi. Un contadino accorso scruta la superficie, calma piatta. Come una freccia uno di quei buchi sputa fuori il bambino. Fradicio da capo a piedi, il contadino lo asciuga e rincuora. È molto scosso, sussurra solo: «la porta d’oro». Goldentor: con questo toponimo è indicato, sulle cartine geografiche, lo stagno proibito.
Parto così per Kloten da dove di solito si parte. Da sempre subito associato all’aeroporto e alla squadra di hockey i cui giocatori non a caso spesso sono chiamati «gli aviatori», Kloten un tempo era un tranquillo villaggio di contadini. Come quello che chiede al bambino di raccontargli qualcosa di più di questa porta d’oro. In fondo allo stagno, la sirena lo ha portato in una meravigliosa città tutta d’oro. Altre sirene incantevoli vivono lì, oltre la grande porta d’oro. «Dopo che ebbe raccontato questo, il bimbo chiuse il suo cuore e tornò a casa» si legge verso la fine della leggenda raccolta in Schweizer Sagen und Heldengeschichten (1914) di Meinrad Lienert. Un rombo di aerei mi accoglie alla stazione di Kloten da dove inizia il mio viaggio verso lo stagno fatato. Una fontana ottocentesca è un rapido tuffo nel passato, spodestato presto dalla presenza enorme di un puck scultoreo per gli ottant’anni del Kloten, nel mezzo di una rotonda per il traffico. Diversi vecchietti in carrozzina elettrica vanno come razzi; uno se ne sbatte altamente della realtà: paglia in bocca, lattina di birra da mezzo nella mano libera. Un’antica osteria è diventata un ristorante cantonese con buffet a volontà.
All’altezza del benzinaio, svolto a sinistra, imboccando una viuzza verso l’aeroporto. Una fattoria, qui, mi sembra fantascienza pura. Parallela alla pista di decollo, una strada corre dritta tagliando in due i campi. In realtà è un campo d’armi camuffato in zona campestre con tanto di pista per panzer tra i meli. Ciclisti scatenati sfrecciano via nella loro voglia cieca di credersi in campagna. Uno con degli sci di fondo da strada mi passa via accanto incarognito e mi chiedo, per un secondo neanche, cosa gli sia andato storto nella vita. Cammino e cammino e mi chiedo se non sia io ad aver sbagliato strada. Il ciclismo terapeutico incomincia a essere estenuante, devo guardarmi di continuo alle spalle. Mi sposto dunque sull’erba. Le balle di fieno di un’altra fattoria rassicurano un po’, un campo dimenticato di fabacee da foraggio scoppietta al sole attraverso i bacelli che si aprono. L’erba medica è in fiore. Dev’essere quello là. Tutta questa strada per questa pozzanghera mi dico, eppure, accovacciato sulla sponda, salta all’occhio l’insolita limpi-dezza dell’acqua. Scruto il fondale e in effetti la sabbia chiara con il sole crea dei riflessi dorati. Le rive erbose, tra i campi appena falciati, invitano alla sosta. Il punto di vista migliore però è un po’ arretrato, su una della due panche all’ombra di un vecchio frassino. Sull’altra c’è una coppia di mezza età, non parlano, guardano fiduciosi davanti a loro.
Dopo un quarto d’ora, quello che sembrava niente di speciale, si rivela un luogo da sogno. Sullo specchio d’acqua nitida, ogni tanto, si creano dei cerchi. Dev’essere il respiro dei «piccoli vulcani di sabbia» come vengono descritti in un articolo apparso sul «Neues Bülacher Tagblatt». Una betulla e un rovere si tengono compagnia, i motori a reazione degli aerei attutiti dalla distanza s’intrecciano ai cinguettii di rari uccelli dei quali non so il nome. Alle spalle c’è il brusìo autostradale, eppure una pace insperata mi piomba addosso, sperduto qui tra Zurigo e Winterthur, in faccia a questa falda acquifera dai riverberi auriferi. La luce filtrata dagli alberi, si riflette attorno, sul finire di un pomeriggio agli inizi di settembre, quasi con la stessa delicatezza di una canzone di Nick Drake. È una risorgiva fiabesca sotto la quale c’è una città d’oro. I suoi riflessi risalgono i fori nella sabbia per scintillare agli occhi di chi si prende il tempo di vedere, senza aspettarsi né pretendere chissà cosa da un luogo. Un trattore passa via, altri ciclisti in fuga dalla vita. L’unica anitra, divorziata, sonnecchia.
La coppia mi sa che non è la prima volta che viene qui a rigenerarsi sul serio al cospetto dello stagno Goldentor (427 m) di Kloten. Se hanno parlato io non li ho sentiti. La contemplazione è un hobby serio. L’unico modo, forse, senza effetti collaterali, per essere in un altro mondo.