In treno, mattino presto di dicembre, ho appuntamento con uno squalo. Non tutti sanno che a Losanna c’è il più grande squalo bianco naturalizzato del mondo. Eppure da quasi sessant’anni è esposto in una sala del museo di zoologia e «ha impressionato generazioni di losannesi in calzoncini corti» scrive il «24 heures» nel giugno 2015 dando notizia di un suo lifting. Per evitare un bidone ho scritto un’email al museo, mi hanno risposto subito, il progetto lifting si è arenato e lo squalo di 5,89 metri è sempre lì, fedele al suo posto. Al quinto piano del palais de Rumine, in place de la Riponne, dove sbuco dopo due minuti di metrò.
Due sfingi alate vigilano su due colonne in marmo rosa di Baveno ai fianchi dell’imponente palazzo in stile italianizzante che prende il nome da Gabriel de Rumine (1841-1871). Figlio di principi russi venuti a curarsi a Losanna, ha lasciato un milione e mezzo di franchi per un edificio di utilità pubblica. Davanti c’è uno scarno mercato delle pulci e tanti sbalestrati che bevono lattine di birra al sole d’inverno. Costruito tra il 1891 e il 1906 sui piani dell’architetto lionese Gaspard André, dentro è di una teatralità non da poco, incentrata su uno scalone che si dirama a ogni piano: accoglie altri quattro musei e la biblioteca cantonale.
All’ultimo piano incontro diciotto uccelli invernali lemanici dentro una vetrinetta con tanto di sfondo lacustre dipinto e canneti secchi veri. Una tigre tassidermizzata mi dà il benvenuto. Percorro poi una carrellata di pelicanidi impagliati e una marea di altri volatili esotici mai visti, tutti dentro delle favolose vetrine vecchiotte in legno dipinto di bianco. Mi sembra di essere all’inizio dell’Uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento. Tutti sono etichettati con una didascalia scritta a penna: nome comune e in piccolo, il nome scientifico. Fascino folle del desueto. Le pareti sono color pistacchio pallido.
Di colpo mi ritrovo faccia a faccia con lo squalo di Losanna (517 m/s.l.m.) finito nelle reti dei pescatori di tonni all’alba del tredici ottobre 1956 al largo di Sète, dove tra l’altro è nato Paul Valéry. Più che impressionare, come il famoso squalo tigre da dieci milioni di dollari dell’artista inglese Damien Hirst immerso nella formaldeide bluastra intitolato The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1992), ha un’aria simpatica. Forse, ai tempi in cui c’era la scritta mangiatore d’uomini, spaventava di più.
In realtà lo squalo non è l’erronea immagine traumatica che ci ha propinato, seppur drammaturgicamente impeccabile, il film di Spielberg: Lo squalo (1975). In media ci sono solo cinque morti all’anno, con gli omicidi non c’è gara. È l’unico a non avere più nemmeno la didascalia con il nome scientifico che sarebbe Carcharodon Carcharias. Sarà perché gode dello statuto a sé di mascotte. Gli tengono compagnia una tartaruga Luth e un tricheco nonsocosa. Mi raggiunge Chantal Ebongué, responsabile della comunicazione, e mi dice che dentro, il tassidermista, ha lasciato una bottiglia di rum e una lettera scritta di suo pugno. Sono le mani di Eugène Küttel (1916-2002) ad aver preparato lo squalo acquistato dal museo.
Sbarcato qui per via della telefonata di un professore di Neuchâtel in vacanza a Sète, fatto a pezzi al macello di Malley, ci sono voluti due anni a Küttel per ricomporlo con cura e conservarlo così. Visto le condizioni della pelle, impossibile tassidermizzarlo, ha dovuto dunque ricreare tutto con un mix di materiali e dipingerlo. Comunque l’ittiotassidermia è un po’ utopica, pare, per gli squali. Di vero rimangono le pinne pettorali e i denti, tranne tre che sono stati rubati. Un’ammirevole arte maniacale quella del tassidermista, a metà strada tra l’artista e il naturalista. «Ha sbagliato strada» mi dice la signora Ebongué, visto che nel golfo di Sète non ci sono squali bianchi e precisa che è una femmina ed è morta a bordo, infarto. Al macello hanno trovato dentro due delfini di due metri.
Mi conferma poi il forte legame tra lo squalo e la città: una sua amica per i suoi settant’anni le ha chiesto se potevano fare «un apéro accanto allo squalo e nella sala dei mostri». Dice poi che ogni museo di storia naturale ha la sua mascotte, a Ginevra è la tartaruga a due teste, a Friburgo la balena; i suoi figli spesso dicono «andiamo al museo della balena ?». Ma se cercate emozioni forti, vi porto qui accanto, nella cosiddetta sala dei mostri. Sulla soglia, nella lunetta in alto, risalta un altorilievo marmoreo con una donna muscolosa che tiene in mano un teschio alla Amleto.
Qui c’è roba da Wunderkammer: un vitello con due teste, una capra vallesana con tre corna e una con cinque zampe. Torno dallo squalo di Küttel e penso alla bottiglia di rum e a quella lettera nel ventre. E poi ai messaggi nelle bottiglie in mare, agli egittologi che aprono i sarcofaghi, alle vite dei pirati, alla potenza del tempo, alla pazienza soprattutto. Merce rara oggi, al pari del pinguino estinto delle Malvinas quaggiù nei depositi, al buio.