In un recente comunicato l’Associazione per la donazione di organi Swisstransplant ha fatto il punto sulle conseguenze dell’emergenza Covid-19. I doni di donatori viventi e i trapianti di reni sono stati interrotti per alleggerire gli ospedali, ma il peggio è stato evitato. La Svizzera infatti non è stata confrontata, come invece è accaduto ad altri Paesi, con un arresto completo delle pratiche di donazione.
Nonostante la limitazione delle attività sia stata abbastanza contenuta, la situazione ha avuto tuttavia influenza sulla lista d’attesa, in cui il tasso di mortalità è nettamente aumentato, soprattutto per quanto riguarda la donazione di reni. A questi dati, che parlano di una situazione comunque problematica, va aggiunto il calo di trapianti di fegato registrato già a partire dall’estate dell’anno scorso. Complessivamente in Svizzera nel 2019 c’erano più di duemila malati in attesa e le donazioni sono state poco più di 500 (157 doni post mortem).
Il dono di organi è una scelta molto delicata che invita a riflettere sul senso e sul valore della vita e ci interpella nel nostro più intimo vissuto.
Questa delicata e attualissima questione etica è anche un invito ad aprirci ad un più ampio orizzonte di senso in cui sia possibile riconoscerne l’essenza, illuminare ciò che la fonda, ovvero il significato originario del dono, il significato antropologico originario dell’atto di donare. Punto di avvio di una riflessione a più voci che ha attraversato tutto il Novecento è il Saggio sul dono di Marcel Mauss, pubblicato nel 1923/24, a partire da ricerche su culture-altre, compiute soprattutto in Oceania. Secondo questi studi, il dono costituirebbe una vera e propria forma di scambio pre-economico, basata su una reciprocità aperta, dove dare e ricevere non è mai un semplice restituire.
Lo spirito del dono fonda e nutre di sé il legame con l’altro e lo alimenta in una specie di debito reciproco. In gioco non è mai solo l’oggetto donato. Di questa essenza del dono e del donare, che appare come un carattere costitutivo della nostra umanità, ci sono almeno un paio di aspetti che, nella nostra cultura basata sullo scambio economico, ne rendono difficile la comprensione.
Il primo aspetto riguarda la gratuità di un gesto o di una relazione con l’Altro. Un agire disinteressato, che esprime una finalità, mosso da una motivazione intrinseca, senza cause né scopi fuori di sé: un atto libero. Questa attitudine alla gratuità è anche il fondamento dell’azione morale, del «devo perché devo» senza un fine ulteriore. Nel nostro clima culturale che enfatizza il valore di ciò che è utile, di ciò che serve, la gratuità del dono e del donarsi, mai misurabile e senza alcuna garanzia di un controdono, diventa esperienza difficile. Quando, come accade oggi, la domanda «a che cosa serve?» diventa la principale domanda di senso, rischiamo davvero di perdere il sentimento del valore intrinseco alle cose.
C’è poi un altro aspetto dello spirito del dono piuttosto difficile da cogliere, e soprattutto da vivere, nella nostra cultura, ed è il suo essere fonte e nutrimento di un legame: nella circolarità di uno scambio aperto, il dono è sempre, in qualche modo, dono di sé. È un donarsi nelle cose che crea una condizione di debito reciproco. Una condizione di intensa reciprocità che riusciamo a cogliere nei legami d’amore. Nelle nostre relazioni sociali, invece, l’essere in debito si trasforma in qualcosa di negativo, di insopportabile. Quando un amico ci offre un aperitivo, mentre lo ringraziamo sentiamo l’obbligo di garantire al più presto un «buon rendere».
Sullo sfondo di una cultura pervasa dallo scambio economico è sempre necessario sdebitarsi e il dono, scorporato dall’esperienza impegnativa del legame, diventa regalo, o donazione, un oggetto comunque sempre misurabile nel suo valore. Ma noi non siamo soltanto homo oeconomicus e lo spirito del dono sopravvive in tanti aspetti del nostro stare al mondo. È un «supplemento d’anima» in cui risuona il desiderio di gratuità e il sentimento del legame. Penso al mondo del volontariato che attraversa la società con i suoi linguaggi intimi e discreti. Penso alla figura del maestro che, al di là delle conoscenze, sa nutrire la relazione educativa con il suo esserci autentico. E infine penso al «supplemento d’anima» che ci ha offerto il personale sanitario in questi mesi difficili.
Lo spirito del dono, insomma, circola ancora sempre tra noi e queste sue atmosfere, silenziose ma vive, possono offrire anche alla medicina dei trapianti una forza e un senso ulteriore.