L’esposizione che il Museo nazionale svizzero dedica all’«italianità» (fino al 14 aprile 2024 nella sede principale di Zurigo) offre un’ottima occasione per tornare a riflettere su un concetto che per più di un secolo ha permeato le relazioni italo-svizzere, attraverso una fitta rete di interscambi e di reciproche influenze. Una trama intessuta nel tempo da Governi, partiti, associazioni, giornali, enti di formazione, missioni cattoliche e patronati, e con sullo sfondo la lunga e spesso tragica vicenda migratoria. L’iniziativa riserva una sezione anche all’«italianità autoctona», quella interna, nei suoi molteplici rapporti, verso nord con la Berna federale e verso sud con la Lombardia. Succede spesso che un osservatore italiano chieda come un novello Prezzolini quale sia l’«anima» del Cantone, se si senta più italiano o più svizzero (più impegnativo è allargare la discussione alla nozione di «Svizzera italiana»). La reazione è di solito immediata: «svizzero», è ovvio. Ma poi, quando arriva la seconda domanda, la faccenda si ingarbuglia: va bene, l’itinerario storico è questo, ma la lingua, le tradizioni, il corredo culturale in senso antropologico, il patrimonio storico e architettonico? Non sono tutti frutti caduti dal frondoso albero dell’italianità?
L’osservatore sa di toccare un nervo sensibile, e in buona parte rimosso, almeno negli ultimi decenni. Ma fino all’avvento di movimenti e partiti d’ispirazione micro-sovranista («il Ticino ai ticinesi»), il dibattito è stato intenso, coinvolgendo non soltanto gli intellettuali, letterati come Chiesa, Zoppi, Calgari, Janner, Bianconi, ma anche la scuola e l’informazione, prima radiofonica e poi televisiva. L’interrogativo era già affiorato nel corso della «Belle époque», all’alba del Novecento. Motivo: il timore che il Cantone perdesse il suo plurisecolare «volto italico» a vantaggio di una sempre più numerosa ed economicamente agguerrita colonia germanofona. Nel contempo giungeva l’eco delle agitazioni che scuotevano città non ancora incorporate nel Regno d’Italia come Trieste e Trento: «terre irredente», ossia non ancora liberate, il cui destino muoveva le coscienze di Teresa Bontempi e Rosetta Colombi (redattrici del settimanale «L’Adula»), di giornalisti come Emilio Colombi, di glottologi di chiara fama come Carlo Salvioni.
A questa tendenza, salutata con favore all’inizio ma poi scivolata nel filo-fascismo dopo la grande guerra del 1914-18, gli elvetisti, con in prima linea Brenno Bertoni, opposero la fedeltà all’ideale repubblicano ancorato nella Costituzione federale, e questo fino al tramonto del regime mussoliniano. Sventato il pericolo autoritario esterno (l’Italia nel 1946 diventa anch’essa una Repubblica), rimaneva quello endogeno, ossia l’intedeschimento, una forma di neo-colonialismo vissuta dai ticinesi come un’azione di esproprio, sia della terra («Bauland Tessin»), sia della lingua italiana. Un dibattito che poi si riaccenderà negli anni Ottanta del Novecento, dopo l’apertura della galleria stradale del San Gottardo (come si vede il tema delle vie di comunicazione trascina sempre con sé un sacco di altre questioni). Nel contempo andava configurandosi un altro incontro-scontro, quello con gli immigrati italiani, bersaglio di una martellante campagna ostile da parte dei movimenti xenofobi. Anche questa comunità era portatrice di italianità nei suoi luoghi di ritrovo e di aggregazione, ma agli occhi degli svizzeri italiani rimaneva una presenza estranea se non esotica. Le pur lodevoli iniziative radio-televisive («Per i lavoratori italiani», «Un’ora per voi») non abbattevano gli steccati che la propaganda anti-italiana di Schwarzenbach e seguaci aveva eretto fin dalla metà degli anni Sessanta.
Ora il panorama è decisamente cambiato, perfino nella più rigida Svizzera tedesca. Ora l’italiano non vive più ai piedi della scala socio-economica; è anzi accettato come esponente di un modo di vivere inconfondibile, in cui convergono buon gusto, moda, eno-gastronomia, concezioni estetiche. Si parla per tanto di «Italian style» o, come per anni ha sostenuto il primo presidente della regione Lombardia Piero Bassetti, di «italicità», intendendo con questo un amore per le cose d’Italia che trascende la conoscenza della lingua. In Ticino invece il concetto di italianità è uscito dall’uso, spodestato da «identità», termine tanto vago quanto informe, e per niente inclusivo. Ma un’identità priva di italianità è un guscio vuoto.