In kayak parto per l’Isolino Partegora. Un tempo conosciuto anche come Isolino Crivelli, si trova nell’insenatura del Lago Maggiore dove c’è Angera. Una parte di lago nota come gora – acqua stagnante, paludosa – che ha dato forse il nome a questo isolino che potrebbero anche benissimo chiamare Sant’Arialdo. Per via del suo martirio: fatto a pezzi il ventisette giugno 1066 lì sull’isolino a cui non ci si fa quasi caso, talmente dentro l’insenatura e vicino alla riva che si confonde con i canneti dell’altra sponda. Eppure qui i vecchietti che bevono il bianchino al chiosco sul viale alberato, tra le riflessioni sui loro orti e le battutacce sulle graziose turiste tedesche che passano via, lo chiamano solo «l’isulin».
Prendo subito confidenza con questa imbarcazione nata tra gli inuit, in Groenlandia, nella baia di Disko. Il remo affonda docile ed efficace nel lago e la rotta si aggiusta rapida. Potrei prendere velocità, per raggiungere il prima possibile l’undicesima non conosciutissima isola del Lago Maggiore, ma voglio gustarmi questo inedito viaggio. Supero dunque, con tutta calma, un banco di alghe verdi che per me sono già un’avventura. Il Santuario della Madonna della Riva, ai piedi della Rocca di Angera per la quale è molto conosciuta questa località, ora è in asse con l’apertura del porto asburgico. Al fianco del quale sono entrato in acqua sette minuti fa circa.
Approdo così in kayak, una tarda mattina verso la fine di luglio, sull’isolino Partegora (198 m). Trascino in secca la mia imbarcazione inuit a nolo e sbarco, a piedi nudi, sulla spiaggia. Un po’ dimenticata da tutti, anche grazie al divieto di ormeggio per barche a motore, qui, nidificano, in santa pace, cigni, folaghe, germani reali e altri uccelli. Le loro orme, sulla sabbia umida, compongono un disegno geometrico niente male che mi ricorda i geroglifici di Paul Klee o certi petroglifi dello Utah. Sabbia paludosa dove si sprofonda un po’, acqua calda trasparente, non un’anima viva, e la presenza di vongole asiatiche, provocano un effetto spaesante. L’incavo madreperlaceo di diversi gusci spiaggiati di conchiglie giganti in giro, è quasi esotica fantascienza. Si tratta di mega vongole balzate all’onore della cronaca locale qualche anno fa visto che si trovano misteriosamente solo ad Angera e identificate come Anodonta woodiana.
Tra i pioppi trovo la lapide commemorativa ottocentesca posta dal conte Crivelli: «Qui / il 27 giugno 1066 / il diacono Arialdo Alciato / subiva il martirio / da mano eretica e incontinente / consacrando col suo sangue / questo lembo di terra angerese» si legge scolpito sopra. Sotto la lapide per Sant’Arialdo – sostenuta da due colonne rosa di Baveno ormai ingrigito che formano, col frontone sopra, una specie di tempietto – ce n’è un’altra. Risale al venti novembre 1945 ed è per onorare la memoria dei due figli caduti in guerra (Franco e Alberto, capitani navali) del commendatore Attilio Brovelli e sancisce la donazione fatta per questa ragione, dell’Isolino Partegora, al comune di Angera.
Sbuco sulla spiaggia all’estremità nord di questo isolino «di appena 350 metri di giro» come viene indicato tra le pagine della Grande illustrazione del Lombardo-Veneto (1856), dettagliata enciclopedia storico-toponomastica in sei volumi a cura di Cesare Cantù. Più paludosa, il passo si sofferma meno e aumenta di ampiezza, oltre che prendere una piega Nureyev.
In questa zona, Alessandro Volta, aggirandosi in barca incuriosito da strane bollicine che risalivano a galla e alcuni gorgoglii, il tre novembre 1776, scopre il metano. Fruga sul fondale melmoso con un bastone, raccoglie quell’aria in «un capace vaso di vetro» come rivela lo stesso Alessandro Volta in Lettere sull’aria infiammabile nativa delle paludi (1777). «E così questo minuscolo isolino, lungo neanche cento metri, circondato da canneti con qualche albero al centro, si è conquistato un posto nella storia» scrive Ambrogio Borsani in Avventure di piccole terre (2016).
Io scopro, oltre a esemplari di gusci vuoti, scintillanti al sole, di Anodonta woodiana lunghi sedici centimetri, bottiglie vuote di plastica senza messaggi. Una scarpa con il tacco a spillo però, di colpo, arenata nella sabbia nerastra ed erbosa di quest’isoletta spartana, modesta e indomita che arricchisce il mio isolario negli immediati dintorni, non è certo una scoperta da poco.