Sant’Otmaro muore, il sedici novembre 759, sull’isoletta lacustre nel canton Turgovia che sto cercando di scorgere invano una fine mattina piovigginosa ai primi di maggio. Sceso a Eschenz, comune al quale l’isola appartiene anche se di proprietà dell’abbazia benedettina di Einsiedeln e data in affitto ai francescani, alla fermata dell’autopostale mi accoglie un passaggio a livello nel nulla. A parte un ristorante thai e una vecchia gatta cicciona che si muove a fatica, stile ippopotamo, ma fa ancora ron ron.
A naso vado verso il lago che non si vede ancora, tra casette con giardino, prati con mucche, canneti. Eccola là, in fondo al pontile. All’estremità occidentale del lago inferiore di Costanza che sta per ridiventare Reno. Rheinsee, non per niente è chiamato così questo braccio esiguo di lago che defluisce tra poco nell’Alto Reno. Tra seicento metri circa, all’altezza del ponte per Stein am Rhein, meta turistica-pittoresca per via di antiche case a traliccio e facciate dipinte che si nota bene laggiù, sulla riva opposta, nel Canton Sciaffusa. Alle sue spalle, in cima a una collina, in mezzo al bosco, spunta un castello. Sullo sfondo, dall’altra parte, sprazzi quasi fluo del giallo colza in Germania. L’acqua è bassa e limpidissima. Una ballerina bianca e nera, si posa sul corrimano del pontile lungo duecentotrenta passi. Domina la scena, seppur con discrezione, il frontone a gradoni del convento tutto bianco come la cappella di Sant’Otmaro attaccata.
Sant’Otmaro avrebbe potuto benissimo chiamarsi tutta l’isola, in onore del monaco alemanno confinato qui fino alla fine dei suoi giorni. Werd, invece, tratto da un vocabolo tedesco antico, è sinonimo di isola fluviale. Che fantasia, un po’ come il bassethound del tenente Colombo che si chiama Cane. La corrente poi, a essere precisi, qui non si vede scorrere per niente, perciò, da umile islomane, la riterrei lacustre, al limitare della defluenza. Come le sue due sorelline minori disabitate – le Werdli – che si distinguono a malapena, appena dietro, già sul territorio di Sciaffusa ma in possesso dell’avifauna. Spiccano sulla facciata del piccolo convento antico, le sedici persiane tipiche svizzere, dipinte con fiamme optical gialle su sfondo nero.
L’isola Werd (398 m) da una cinquantina d’anni è abitata da frati francescani, sei adesso. Sotto le otto finestre, sul prato, c’è un labirinto come quello sul pavimento della cattedrale di Chartres. Riprodotto con erba e ghiaia, idea dell’associazione femminista Labyrinth international, dal 2006 esiste questo labirinto di Chartres che, tanto per, incomincio a percorrere. Una parte è cosparsa di petali rosa caduti da un pruno ornamentale. Senza fretta, però a un certo punto mi sento come criceto nella ruota, passatempo per i frati. Al centro un po’ una delusione, un aggeggio pseudoscultoreo di metallo sembra un posacenere poco meditativo. «Pace e bene»: il famoso slogan francescano si legge in latino sulla porta del convento.
Piove sul serio ora, mi rifugio nella chiesetta dedicata a Sant’Otmaro. Co-fondatore dell’abbazia di San Gallo e protettore, tra gli altri, dei calunniati, visto che per un soffio è scampato a una condanna a morte, finendo esiliato qui, per via di una calunnia nei suoi confronti riguardo a uno scandalo sessuale. Un frate sta trapanando una statuetta lignea. Cerca, credo, di fissare, facendo dei buchi con il trapano elettrico, tutto sudato e rosso in viso, dei tulipanini inutili imprigionati nella plastica. Cerco veloce con lo sguardo di acciuffare la reliquia di Sant’Otmaro portata qui nel 1767 che provocò, pare, un afflusso crescente di pellegrini. Il frate non smette di utilizzare il trapano elettrico, senza pace abbastanza non riesco bene a cercare. Esco fuori, rammaricato di non aver visto neanche una rappresentazione di Sant’Otmaro, la cui iconografia prevede sempre un barilotto. Si racconta che trasportando la sua salma in barca, verso San Gallo, il vino dei barcaioli, sarebbe miracolosamente aumentato.
Su una panchina riparata da un nocciòlo, mi siedo per il pranzo al sacco: panino imbottito di peperoni arrostiti, tè freddo, fragole al limone e zucchero. L’isoletta monastico-avifaunicola turgoviese di un ettaro e mezzo è presto perlustrata: gran parte è indicata dai frati come Privat, il resto è sbarrata da uno sgraziato nastro di plastica perché è zona protetta per la natura. Eppure non ho ancora trovato il masso erratico detto Elfistein. Nessuna leggenda a proposito di elfi, ma elfi è l’orario in cui, quando non c’è nessuno in vista, la pietra gira su sé stessa. Altre pietre delle undici conosciute, si trovano a Meilen, sul lago di Zurigo, e altrove. Aguzzando la vista, sulla spiaggetta, avvisto l’Elfistein emergere dall’acqua.
Non lontano dall’erratico delle undici, degli scavi archeologici negli anni trenta, portarono alla luce reperti della tarda età del bronzo, tra millecinquecentocinquanta e milleduecento anni avanti Cristo. Ritrovamenti magnetici, affiorati in mezzo al fango, chiamati Mondhörner o Mondidol. Mezzalune-corna in terracotta: presunti alari per il fuoco o solo degli idoli così, a forma di luna crescente, come gli amuleti della Roma antica noti come lunule. Salici piangenti si chinano verso l’acqua tra lago e fiume, su quest’isoletta verde ai confini della defluenza e del divenire.