L’isola Schwanau

/ 25.05.2020
di Oliver Scharpf

Catturata da Turner con un acquerello che sprigiona tutta la forza dell’eva-nescenza, l’isola Schwanau si trova sul lago di Lauerz, nel canton Svitto. Sullo sfondo, come fantasmi quasi sul punto di evaporare, appaiono i due Mythen. Meno sognante di quella trasfigurata in The Lauerzersee with the Mythens (1848 circa) conservato al Victoria & Albert Museum, ma con tutto intorno una bruma onirica degna del miglior Turner che avvolge in parte il paesaggio intorno, camminando la vedo laggiù. E mi sembra più bella nella realtà. Irreale davvero: isoletta verde scuro con battellino blu attraccato, campanile a cipolla rosso cremisi, chalet, torre. Non lontano, l’isolino disabitato che un tempo, come si vede in un dipinto di Caspar Wolf intitolato Lauerzersee mit Insel Schwanau (1777) dove l’isola Schwanau è ritratta guardando a nordovest con il Rigi sullo sfondo, aveva anche il suo chalet.

Pescatori girano silenti sulle loro barchette sognando lucci. Salpo a bordo della Gemma von Arth, battellino blu retrò a energia elettrica e solare, capitanato per il primo viaggio della giornata, alle undici in punto, dallo chef Hugo sceso un attimo a riva per prendere la posta. Al timone, a fare la spola ci sarà poi Simone, capitana di Küssnacht am Rigi salita a bordo con me. La traversata dura un batter d’occhio. A ridosso delle fronde degli alberi, in prossimità delle ninfee non ancora in fiore, vedo la barca con un trio di ragazzi che pesca. Metto così piede sull’isola Schwanau (469 m) una fine mattina di maggio inoltrato. Eremitica fino a inizio Ottocento, l’isoletta lacustre dirupata e dotata da un decennio di scale moderne che portano alla chiesetta e al ristorante-chalet con terrazza, è legata da sempre a una leggenda tragica a proposito della torre e una fanciulla. Un cerino è acceso in chiesa.

Scolpita nella pietra, una spatafiata in latino in onore di Ludovicus Carolus Auf der Maur. Ludwig Auf der Maur (1779-1836), tra le varie cose comandante del reggimento cattolico svizzero in Olanda che inizia la sua carriera militare come paggio a Napoli, compra l’isola di poco più di mezzo ettaro nel 1808 autoproclamandosi cavaliere di Schwanau. Rimane di proprietà della famiglia Auf der Maur fino al 1967, quando viene venduta al canton Svitto. Tra i resti del castello risalente al XII secolo, spunta il viola dell’Aquilegia atrata e il lilla azzurrato di una campanula. Nel praticello un bombo si posa su una bugola, balza poi da una bugola all’altra. Una struttura leggiadra ben mimetizzata, a forma di torre smilza fatta di assicelle di quercia slavate, è attaccata alla torre antica. È la riuscita rampa di scale, ideata dallo studio di architetti paesaggisti Fischer di Richterswil e lo studio di architettura ARDE di Brunnen che nel 2007 vincono il concorso per ristrutturare tutto quanto sull’isola.

Salgo su nella torre, dove da una piattaforma sempre di legno di quercia che invecchia bene rendendosi discreto e sfuggente, si ammira il lago placido. Le mura sono habitat per diverse sassifraghe, scovo del timo selvatico. Ne raccolgo quanto basta per una tisana stasera. Da questa torre, si racconta che una bella fanciulla di nome Gemma si è tuffata nel lago per sfuggire al landfogto che l’aveva rapita ad Arth e imprigionata nel suo castello. Il giovane di cui era innamorata viene a salvarla in barca, una notte quando la luna era tra i due Mythen. Tuffo coraggioso, senza però fare i conti con le ninfee: così innocenti in apparenza, ma che sotto la superficie dell’acqua nascondono un intrico di steli insidiosi; si attorcigliano attorno alle caviglie. La storia di Gemma, annegata qui tra le ninfee, ha ispirato un dramma popolare in cinque atti del teologo Thomas Bornhauser: Gemma von Arth (1828). Da qui deriva il nome dell’imbarcazione.

Schwanau invece, viene naturale pensare ai cigni – Schwan in tedesco – eppure la pedanteria o stupidità della toponomastica lo esclude, convinta del verbo schwenden: debbiare, dissodare incendiando. Partito presto stamattina e venuto qui a piedi dalla stazione di Arth-Goldau, per me oggi è già ora di pranzo. Mi siedo fuori in terrazza, su una panca ancora di quercia, a un tavolino sempre di quercia adiacente alla chiesetta. Le tipiche persiane dipinte a fiamme dello chalet-gasthaus, un tempo rifugio degli eremiti scappati dopo lo tsunami del 1806 causato dalla frana di Goldau, sono di un optical spinto. Il vortice rosso su sfondo bianco, mi ricorda tanto i titoli di testa di Vertigo ad opera di Saul Bass. Zuppa di asparagi niente male: servita in un bicchierone come un milkshake, il burro alle erbe cosparso di petali si fonde con il resto in cui si nota la presenza del latte di cocco.

I campanacci delle mucche sui prati scoscesi che salgono su verso il massiccio del Rigi, s’intrecciano con il brusìo delle macchine che passano sulla Seestrasse. Sui sedici tavoli all’aperto, le luci per la sera sembrano delle case per uccellini. Il sorriso e l’accoglienza della moglie di Hugo e la gentilezza del cameriere non guastano. La tarte tatin con gelato alla vaniglia, va detto, è una cannonata. Se volete, per pranzare, c’è anche la Goethe-Stube. Ricercando a fondo girano due date, diciassette giugno o luglio 1775, plausibili ma non c’è nessuna traccia scritta da Goethe riguardo a una sua visita. Del resto, un po’ come le locande dappertutto dove ha dormito Napoleone, facendo un’indagine seria sulle Goethe-Stuben di mezza Europa, dovrebbero essere una quarantina circa.