L’isola Saffa

/ 10.10.2022
di Oliver Scharpf

Un pomeriggio piovoso di ottobre corro lungo la Bahnhofstrasse per prendere il tram numero sette. Avrei anche potuto prendere il prossimo ma di colpo si è risvegliata, come lava sotto i vulcani, la pulsione d’isola. Un desiderio d’insularità ridicolo, patetico, perché mica parto per Pantelleria. La destinazione è un’isoletta artificiale, fatta con materiale di scavo, a dieci metri da riva. Eppure, per un islomane cronico, ormai arrivato all’ultima puntata del suo feuilleton sulle isole minori svizzere abbastanza sconosciute, accorgersi di poter continuare la cronaca dell’arcipelago lacustre zurighese, è un miracolo. Se le isole vere, sul lago di Zurigo, sono tre (Ufenau, Lützelau, Schönenwirt), ho dimenticato questa quarta isoletta inventata di sana pianta nel 1958. Finché, ripercorrendo a ritroso le note scritte in questi anni nei taccuini, non ne ho ritrovato il nome. Saffainsel: il pensiero corre ogni volta a Saffo e l’isola di Lesbo che però non c’entrano niente, Saffa è l’acronimo di Schweizerischen Ausstellung für Frauenarbeit. L’esposizione nazionale svizzera del lavoro femminile, la cui seconda edizione, dal diciassette luglio al quindici settembre 1958, si è svolta qui sulle rive del lago di Zurigo.

L’isola delle donne, come era spesso chiamata, è stata progettata da Annemarie Hubacher-Constam (1921-2012), l’architetto a capo di tutta «la Landi delle donne» il cui motto era «La donna svizzera, la sua vita, il suo lavoro». «L’architetto ha previsto di costruire addirittura un’isola» annunciava il cinegiornale del gennaio 1957 dove si vedevano i camion scaricare terra e sassi nel lago. Billoweg è la fermata dove scendo e in una manciata di minuti arrivo al lago, sul Landiwiese. Il prato-lungolago dell’esposizione nazionale del 1939 – quartiere di Wollishofen – utilizzato anche per la seconda Saffa e dove dovrebbe ancora esserci l’isola Saffa. Un’invasione di optimist con un sacco di bambini e i loro genitori, ai piedi di una specie di obelisco dove troneggia una scultura di donna nuda con braccia al cielo – opera di Hermann Haller, rimasuglio della Landi – ostruisce l’orizzonte. Superato il raduno di barchette a vela, la vista si libera e appare l’isola Saffa (409 m) che attraverso un ponte con una ringhiera blu scrostato, raggiungo con quarantacinque passi. Tre salici e un acero montano, dodici anitre impigrite sul prato, nessuna panchina. Anzi una panchina c’è, bruttina, in beton bocciardato, nascosta sotto la chioma dei salici dove due natanti si avvolgono nei loro accappatoi.

Presa d’assalto in estate, l’isolina a forma ovolare adesso conta solo una terza natante che è appena entrata in acqua a sguazzare. La temperatura dell’acqua oggi è di sedici gradi. Lo farei volentieri il bagno, devo però rinunciare perché correndo l’altro giorno nei boschi sotto la pioggia, in maglietta, ho preso un bel raffreddore. Mi accontento del giro dell’isola, ottenuta con ventiseimila metri cubi di materiale di scavo proveniente dalla costruzione della scuola Freudenberg, non lontanissima, nel quartiere Enge. Un po’ come è avvenuto con il materiale di scavo del tunnel di base del San Gottardo, diventato, lungo il delta della Reuss, le isoline Nettuno e Lorelei. Un paio di minuti neanche servono per percorrere tutta la Saffa, il cui ponte, ovvio, le toglie, almeno per me, buona parte della sua insularità. Visitata da quasi due milioni di persone sessantaquattro anni fa in occasione della Saffa 58, non ha un cartello né niente a indicare la sua storia e nemmeno il nome e forse è quasi meglio così.

Se spessissimo, nei testi sulle isole, si trova citata la canzone di Bennato L’isola che non c’è, il cui titolo deriva dal Peter Pan di J. M. Barrie, qui è il caso di dire che è l’isola che non c’è niente. Avrebbero potuto lasciare lo splendido bar con bancone pentagonale, al riparo da un tetto-ombrello stile Macrolepiota procera. Eppure, forse, così, la caccia diventa più sottile e due maestosi cigni che si rincorrono sono la vera storia dell’isola da catturare in diretta. Come pure la nuotatrice autunnale che esce ora dall’acqua. Waterworks è lo spettacolo della coreografa Meg Stuart andato in scena, per sette sere di agosto, proprio qui tra le fronde illuminate dei salici e soprattutto tra gli schizzi danzanti creati nelle acque basse attorno all’isola Saffa. Dove a metà di un pomeriggio di pioggerella fine ai primi di ottobre, osservo, tra le foglie dell’Acer pseudoplatanus, le simmetrie delle disamare.