Sempre in inverno e spesso, chissàpoiperché, quasi per disperazione, al posto di rintanarmi per una cioccolata calda o un gamay, a volte, tempo fa, andavo sull’isola Rousseau. Riparo di molti uccelli lacustri, in particolar modo dei cigni, il cui biancore placa l’inquietudine. Aggraziato da tutti quei volatili, quello sputo pentagonale di terra sull’acqua con un pavillon d’altri tempi, la statua triste di Rousseau, e gli alberi spogli, era anche habitat ideale per gli intenditori della deriva. Ricordo una vecchia signora con un paltò bordò, tirato spesso su per via della bise, che era sempre lì, canticchiando Bach, a dare il pane secco ai gabbiani in volo. La stessa mossa femminile del bavero del cappotto tirato ripetutamente sul collo, l’ho ritrovata, anni dopo, in biancoenero, nel cortometraggio invernale girato da Godard sull’isola Rousseau. Creduto perduto, Une femme coquette (1955) ricompare su youtube, nel gennaio 2017, determinando per me, una volta per tutte, l’invernalità dell’isola di neanche mezzo ettaro dedicata a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Ritornarci in inverno mi sono detto allora.
Così, verso metà gennaio alle undici in punto eccola lì, al debutto della corrente vera scaturita appena dopo il pont du Mont-Blanc, l’isola Rousseau (376 m) di Ginevra. Apparsa nel 1585 come bastione difensivo e conosciuta poi come île des Barques, nell’ambito dell’abbellimento della rada da parte del generale e ingegnere Dufour, in un periodo di romantizzazione dilagante, nel 1834 viene dedicata al filosofo e scrittore nato qui a Ginevra e morto a Ermenonville. In omaggio alla sua tomba immediata – oggi cenotafio – su un’isoletta popolata solo da pioppi, in mezzo a un laghetto di un parco a Ermenonville, nel dipartimento francese dell’Oise, vengono piantati i pioppi. Si pensa poi ai platani e soprattutto ai salici piangenti. «Specie coltivata per la sua bellezza» scrive Rousseau nelle Lettres élémentaires sur la botanique. Da una vita, come ancora adesso, i salici piangenti sono il preludio melanconico all’isoletta che si trova nel punto in cui il Lemano ridiventa Rodano. Proprio lì, sotto i rami pendenti, si rifugiano diverse specie di uccelli, tra le quali quattro oche selvatiche. Grassottelle e buffe, infondono buonumore.
Collegata al mondo da una breve passerella che parte dal pont des Bergues, l’anima è il vecchio platano maestosto, sulla cui corteccia maculata sono incisi cuoricini, iniziali, iniziali nei cuoricini, nomi come Vesna, Marlon, Noah, Mya. Maria Lysandre è invece il nome della bella attrice sconosciuta, della quale nessuno sa niente neppure oggi, protagonista del corto di Godard tratto da un racconto di Guy de Maupassant intitolato Le Signe (1886). Il segno d’intesa, cercando goffamente di imitare quelle del mestiere, per rimorchiare uno sconosciuto che legge il giornale seduto su una di quelle belle panchine di legno a onda, ai piedi della statua di Rousseau, lo lancia, sedendosi nella panchina accanto. Abbassa di colpo il cappotto, tirato su prima per nervosismo perfino sul volto, lasciando campo libero a un sorriso frettoloso, sulle note dei concerti brandeburghesi di Bach.
Sparite per far posto a inutili parallelepipedi freddi di sasso chiaro in tinta con la ghiaia desolante, su una di quelle panchine ai piedi della statua di Rousseau, Razumov, tormentatissimo personaggio principale di Sotto gli occhi dell’Occidente (1911), trova la quiete necessaria per mettere giù, sul suo taccuino, i primi appunti per un rapporto spionistico. Passeggio su questa «isola assurda» come la definisce Joseph Conrad nel suo memorabile romanzo. Rimaneggiata per il tricentenario della nascita di Rousseau, ho l’impressione che abbia perso un po’ quella decadenza lieve che dava conforto. A parte la nota incoraggiante degli otto nuovi pioppi ripiantati, dopo l’abbattimento di quelli vecchi pochi anni prima, chi ci ha guadagnato è forse il pavillon-chiosco. Snaturato negli anni con diverse aggiunte, è stato epurato riportandolo alla sua volumetria originale del 1912. Anno in cui, in occasione del bicentenario di Rousseau, il pavillon in stile cinese del 1858 viene trasformato in chiosco ottagonale con tetto a cupola. Per assomigliare forse a quello frequentato da Rousseau sull’isola di San Pietro, ammirato la primavera scorsa. Dal 2018 ospita, in estate, il ristorante Shima – isola in giapponese – legato allo storico Hotel des Bergues qui in faccia.
L’acqua, tersa dal gelo, è di una tonalità azzurrina irreale. I cigni dormono alla loro maniera stramba, con la testa reclinata all’indietro, uno smergo li imita. In giro tanti gabbiani irrequieti. Un corvo sbandato si posa sulla statua di Rousseau. Il cui orientamento, dopo il restauro a Fleurier per l’inaugurazione del diciannove gennaio 2012, è stato modificato: verso la città alla quale per anni ha voltato le spalle, come è successo in realtà. O viceversa. L’opera in bronzo di James Pradier, scultore ginevrino neoclassico amato da Flaubert e odiato da Baudelaire, tra l’altro autore dei medaglioni per l’obelisco sull’isola de La Harpe, in cima a un piedistallo, vira al color petrolio. Una aiuola banale lo circonda. Da notare, sotto la sedia, il dettaglio di una pila scultorea di libri. Mica di certo la Capri immortalata da Godard in Le Mépris, né l’isola di San Pietro amata da Rousseau e ritratta nella quinta delle sue passeggiate, eppure in inverno, in alternativa a Lanzarote, quest’isoletta rodanica di città, merita sempre uno sguardo.