L’isola di Peilz

/ 19.03.2018
di Oliver Scharpf

Il periodo migliore, per dare un’occhiata a questa minuscola isola all’estremità est del Lemano, possedimento reale britannico secondo alcune storie locali, è verso la fine dell’inverno. Il platano monumentale dell’isola sembra allora uno di quegli alberi fatati che s’incontrano al mattino nelle pianure brinate magari del Giura. In realtà, il Platanus hispanica piantato nel 1851, è coperto di guano. Opera di cormorani continentali arrivati qui a centinaia, in autunno, dall’Olanda e Danimarca. Anche il favolista danese Hans Christian Andersen è attratto da questo isolotto al largo di Villeneuve, lì ambienta il finale tragico della Vergine dei ghiacci (1861). Perciò un pomeriggio a metà marzo arrivo alla stazione di Villeneuve, comune al quale appartiene l’isola di Peilz. A meno che non sia ancora dei Windsor come sostengono alcuni: regalo del Vaud alla regina Vittoria che nel 1860 soggiornava da queste parti. Presto restituita per via di troppe imposte, dicono altri.

Tutto dritto e in un batter d’occhio sono all’imbarcadero. Eccola lì l’isola di Peilz (374 m): il biancore escrementizio volatile oggi si vede eccome, meno male. Settimana scorsa sono rimasto talmente deluso da abbandonare l’idea del pezzo o ritornarci casomai a nuoto, in estate. In un calo mentale ipotizzavo un cambio di rotta dei cormorani per svernare altrove o un’inspiegabile stitichezza. Aveva ragione quel signore che dava del pane secco agli anatidi: «dipende dalla luce». Oggi infatti con il sole, benché a sprazzi, grazie al cielo, è tutta un’altra storia. Il pontile dell’imbarcadero è occupato da un esercito di gabbiani. Di rado approda, di questi tempi, un battello di linea. Chiuso per lavori, l’ondata di freddo siberiano, e ora solo due crociere la domenica. Ci si passa accanto andando a St. Gingolph; mi sa però che da vicino perderebbe fascino, mistero, esotismo. Solo un birdwatcher coprofilo poi, vorrebbe metterci piede. Il battello con quest’isola non serve. Meglio avvicinarsi incamminandosi sul lungolago, verso il porticciolo dove l’île de Peilz – che si pronuncia come pace in francese – sembra quasi a portata di mano. Alla fine più che isola o isolotto è tutta albero. Un tempo era a malapena uno scoglio che affiorava, poi nel 1797 gli abitanti di Villeneuve lo tramutano in un’isola di quaranta metri quadri.

Tra gli alberi navali, si vede là non lontano, lungo la costa verso Montreux, il castello di Chillon. «Appena mi pareva più grande della mia cella» afferma Byron da quella posizione, per bocca del monaco incarcerato lì in un poema, Il prigioniero di Chillon (1816). C’erano altri due alberi prima, da anni il platano è rimasto solo e si è preso tutto il posto, impadronendosi dell’isola. L’unico pescatore professionista del luogo dice di essere come lui: «piedi nell’acqua, testa in aria». «Star europea» lo definiscono sul «24 heures», dopo essere stato il coprotagonista – assieme al platano millenario greco di Geroplatanos con le radici a mollo in una sorgente – di un documentario prodotto da ARTE. Un paio di foto incantevoli scattate dal fratello del pescatore, Jean-Marc Fivat, attirano l’attenzione dei documentaristi durante il casting arboreo e arriva così il suo momento di gloria televisiva. Una webcam al club velico permette di osservare tutto l’anno, ad ogni ora, in lontananza, il platano-isola. L’isola-platano non l’ho persa di vista un giorno, e appena una giornata di sole ha mostrato, sui rami spogli ultrasecolari, un indizio biancastro, eccomi di nuovo qui. Altri uccelli lacustri da repertoriare: le classiche anitre selvatiche note anche come germani reali, un sacco di folaghe eurasiatiche. Sullo sfondo, i Dents du Midi innevati, dominano il paesaggio.

Prendo la striscia di porto che costeggia il canale a fianco della riserva naturale delle Grangettes, zona protetta dove sfocia il Rodano che segna il confine tra Vaud e Vallese. Vado fino in fondo al molo, mongomeri aperto, sciarpa slacciata: sono preda di un presagio di primavera. Bande di cormorani inquietanti mi osservano camminare a passo di rumba. Non si scappa, è davvero notevole quest’isolatrompe-l’œil pseudo brinata e britannica a ottocento metri dalla riva. Esiste, adesso, forse solo per essere ammirata da una certa distanza, come una finzione teatrale. Il rosso shocking dei fistioni turchi entra in scena a pelo d’acqua, tra le barche. Un uomo sulla sua barca a vela ormeggiata, sull’appartenenza o meno dell’isola alla regina, sostiene che in fondo non si sa bene neanche se appartenga sul serio a Villeneuve o al vicino comune di Noville. Certi dicono persino che sia territorio di Territet, vale a dire Montreux. In ogni caso «è nostra» esclama. Visto che non abita qui a Villeneuve ma a Vouvry, credo di capire cosa voglia dire. È di chi la vede. Comunque la storia della regina è vera mi rivela il velista, gliela aveva raccontata suo nonno, patron dell’Etoile, café-restaurant che c’è ancora qui vicino. La verità è che «suo marito, Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, l’ha persa la notte stessa al casinò di Montreux».