L'isola de La Harpe

/ 06.07.2020
di Oliver Scharpf

Da una vita associo Rolle a Godard, filetti di persico, vino bianco dei vigneti vicini. Oggi Rolle, in riva al Lemano a metà strada circa tra Losanna e Ginevra, m’interessa soprattutto per la sua isola nata nel 1837. Protettiva in origine, nei confronti del porto, per via della bise, l’anno dopo, alla morte di Fréderic-César de La Harpe (1754-1838), diventa al contempo commemorativa. «Fondatore della libertà vodese» leggo ora sulla targhetta sopra la porta al numero cinque della Grand-Rue dov’è nato l’eponimo dell’isola artificiale raggiungibile a nuoto. A quattrocento metri da qui, in una via parallela, all’undici di Rue des Petites-Buttes, abita Jean-Luc Godard. Mentre se continuate tutto dritto per cinquecentocinquanta metri e poi svoltate a sinistra, arrivate al nove di Rue du Port. Dove il Café du Port, da più di mezzo secolo, è famoso per i filetti di persico del Lemano: dorati nel burro, con accanto le frites fatte in casa, vanno a nozze con un Mont-sur-Rolle ben freddo. Giro però in un vicolo buio che sbuca in fondo sul lungolago.

Presto, incontro con lo sguardo, l’isola battezzata con il cognome di un uomo politico che qualcuno potrebbe confondere con lo strumento musicale. Non me la ricordavo così bella. Proprio lì in faccia, un signore con maglietta a righe alla marinara e la cuffietta rossa alla Jacques Cousteau, in piedi su una scala, sta sistemando le decorazioni per un curioso bar con quattro o cinque tavoli che sembra un giardino privato. Il signore si chiama Gabriel Pellan: sbarcato a Rolle quindici anni fa dalla Bretagna, gestisce con sua moglie una crêperie al centoquattro della Grand-Rue.

Questo inatteso e bizzarro bar estivo diventa il mio campo base, bevo un caffè vista isola, lascio lo zaino e sul praticello davanti mi cambio al volo per la nuotata verso l’isola. Dove adesso, da una corda appesa a un albero, due ragazzi si tuffano in acqua. A rana, in breve tempo, avvisto degli scalini scolpiti nella pietra scendere di lato nel lago. E così, salendo sette di quegli undici scalini, arrivo sull’isola de La Harpe (373 m) un bel pomeriggio d’inizio estate. Domina maestosa l’ombra dei platani secolari ma anche l’obelisco si fa notare subito, innalzandosi per tredici metri. L’autore è Henri Fraisse (1804-1841), architetto di Losanna con soggiorno di un anno a Roma che progetta anche l’isola, costruita sopra i resti di un villaggio palafitticolo con blocchi di pietra portati qui dalla cava di Meillerie, sulla riva opposta, in Alta Savoia. In quella direzione, all’estremità dell’isola di duemilatrecentosessantotto metri quadrati a forma di apostrofo o lacrima, tre ragazzi prendono il sole.

L’isola è viva, visto che è considerata come un’evasione possibile a portata di non troppe bracciate o di una barchetta. Dal 1846, ogni anno in maggio, gli adepti della Belles-Lettres, una società studentesca fondata a Losanna nel 1806, fanno qui una grande festa goliardica. Oltre ai bellettriani, anche i roseani ritualizzano l’isola de La Harpe con una nuotata primaverile. L’Institut Rosey di Rolle, prestigioso collegio fondato nel 1880 il cui campus comprende anche il trecentesco Château du Rosey, considera questa nuotata come una delle sue più antiche sfide. Esplorando l’isola a piedi nudi, conto tredici platani. Uno dei quali è imponente con le fronde che scendono sulla superficie del lago. Sul gigantesco obelisco, inaugurato il ventisei settembre 1844 in onore di de La Harpe, alla presenza, oltre che delle autorità politiche vodesi, anche del maggiore argoviese Frey-Herosé e del colonnello ticinese Ludini, leggo: «Je dois tout ce que je suis à un Suisse». Queste parole altisonanti scolpite – così, fuori contesto, suonano un po’ troppo patriottiche per i miei gusti, perdipiù provo orrore per gli onori – sono, pare, dello zar Alexander I di Russia. Allievo di de La Harpe, suo precettore. Sui quattro lati, medaglioni in rilievo di James Pradier, scultore ginevrino neoclassico che ha avuto un certo successo a Parigi, amato da Flaubert e odiato da Baudelaire.

Scopro due pietre tombali, su una si legge ancora a fatica: Emma de La Harpe (1852-1931). La moglie del cugino di de La Harpe, Amédée, generale morto in battaglia a Codogno. L’altra è indecifrabile. Vedo solo ora la scalinata lacustre principale che conduce prima all’isola, proprio di fronte al lungolago. Tredici scalini accanto all’albero con la corda dove aggrappato, penzolo a mezz’aria. Mi lascio andare, tuffandomi infine felice. Gabriel sostiene che sono tre le tombe. Confessata la mia islomania, condividiamo l’amore per Lanzarote e mi consiglia le Azzorre. Mi offre uno sciroppo alla menta e poi mi dice che «nel golfo di Morbihan ci sono duecentoquaranta isole». Un filo da pesca con tanto di galleggiante, per tenere gli occhiali al collo, dice tutto sul personaggio. «La sera, illuminata, bisogna vederla, è magnifica» dichiara a proposito dell’isola lì di fronte dove un gruppo di sei ragazzi raggianti si sta dirigendo a nuoto.

Torno la sera tardi, verso le undici. Senza andare, prima, come previsto, al Café du Port per i persici: certi ricordi, a volte, vanno preservati. È magnifica sul serio così illuminata, la notte diventa molto misteriosa. L’obelisco, a quest’ora, perde la pesantezza e la noia solenne del solito monumento a vanvera e ritorna alla sacralità originaria di Eliopoli, passando per l’erranza estatica delle notti romane. Neanche i lampi nel cielo riescono ora a rubare la scena all’isola dell’obelisco tra i platani.