L’insostenibile peso culturale di Trieste

/ 01.08.2022
di Claudio Visentin

Sono a Trieste. Il mio ostello si chiama Hotello e in effetti è più simile a un confortevole albergo che a un ruvido ostello della gioventù: posizione centrale, camere nuove e pulite, una luminosa terrazza affacciata sul mare. Ostelli simili stanno sorgendo in ogni città importante, per adulti che rimpiangono l’atmosfera (ma non i disagi) dei loro viaggi d’un tempo e giovani abituati a maggiori comodità.

Ho qualche giorno a disposizione per vedere Trieste. La città è semplicemente meravigliosa: da quando nel 1719 Carlo VI prima e sua figlia Maria Teresa poi crearono un porto franco, là dove c’erano solo saline e paludi, nel giro di pochi decenni il villaggio arroccato sul colle di San Giusto si trasformò in una metropoli internazionale, dove si parlano molte lingue diverse (italiano, triestino, sloveno, tedesco…), mescolando culture e religioni. E pazienza se poi il nazionalismo avvelenò i pozzi e la favola bella finì tra le pietraie insanguinate del Carso, aprendo la porta al nazionalismo fascista, la Seconda guerra mondiale, l’ex risiera di San Sabba, le foibe… Come contraddire Karl Kraus? «Sangue e suolo generano solo il tetano».

Insomma Trieste ha davvero tanto da raccontare, eppure stranamente la prospettiva non mi elettrizza. Rimango disteso nella mia stanza anche quando il sole è già alto. La verità è che sono un poco spaventato. La visita di una grande città può essere terribilmente faticosa. Per cominciare la guida sul comodino è un massiccio volume di quasi quattrocento pagine, colmo di luoghi che reclamano il mio interesse. Il timore di mancare qualche luogo imperdibile e apparire ridicolo al ritorno («Sei stato a Trieste e non hai visto questo o quello?») aumenta il disagio. La grande letteratura aggiunge tutto il peso della sua autorità. Nessuna città, quanto Trieste, è stata narrata da grandi scrittori (Joyce, Svevo, Saba, Biagio Marin…). Anzi proprio questo, secondo Montale, sarebbe il suo tratto distintivo, la ragione profonda della sua fascinazione, ma in questo momento questa prospettiva di ulteriori letture mi schiaccia ancora più sul cuscino.

Nel frattempo la signora delle pulizie mette dentro la testa, si scusa e se ne va, ma il messaggio è chiaro: è tempo di uscire. Cerco faticosamente di visitare qualcosa, ma il disinganno è immediato; l’impresa è troppo superiore alle mie forze. In uno spazio ristretto si sovrappongono le epoche più diverse. Il celebre teatro romano di Trieste (riscoperto solo nel 1938), in pieno centro cittadino, è davanti alla Questura, e a poca distanza dalla seicentesca chiesa della Beata Vergine del Rosario. Nel volgere di pochi minuti dovrei trasformarmi in archeologo, storico dell’arte, architetto. Mi rifugio nella vicina osteria da Marino, ma anche qui c’è una storia d’ascoltare: il locale infatti fu aperto nel 1925 dall’ebreo Samuele Cesana e per questo chiuso nel 1940, al tempo delle infami leggi razziali. Dopo la guerra fu riaperto appunto da tale Marino e presto divenne il ritrovo abituale di studenti universitari e attori teatrali. Tra vini e salumi, maturo una decisione radicale: la guida massiccia finisce nel bidone della carta.

I miei prossimi passi per Trieste saranno guidati dal caso. Prendo la prima a destra, poi la prima a sinistra e così via, sino a quando un ostacolo sbarra il cammino. Oppure mi assoggetto alla legge di un numero: prendo l’autobus 5, scendo alla quinta fermata e così via. Soprattutto guardo le persone, nel puro spirito del people watching (l’equivalente umano del bird watching). I celebri caffè triestini, una delle attrazioni più conosciute, sono perfetti da questo punto di vista; e poi ancora le fanciulle che passeggiano per la strada, i musicisti agli angoli della via, gli altri turisti con la loro babele di lingue diverse. A poco a poco mi riconcilio con la città, mi rassereno, torno aperto e disponibile. Soprattutto la mia curiosità si risveglia.

Nelle ore seguenti alcune letture casuali o conversazioni coi triestini incontrati mi svelano percorsi affascinanti quanto poco battuti. Per esempio alla fine degli anni Sessanta la legge Basaglia ha ridato voce e dignità ai matti: oggi un elegante caffè, il Posto delle fragole, occupa gli spazi del manicomio. E un piccolo Museo della bora (!) esplora il rapporto dei triestini col loro celebre vento.

Mentre scende la sera guardo Trieste dal mare a bordo di un battello di linea, il «Delfino verde». Quasi solo qui è possibile ammirare il tramonto del sole sull’Adriatico da una città italiana. Il disco arancione che s’immerge nel mare illumina un turista che ha ritrovato il piacere del viaggio.