L’informazione disinformante

/ 12.12.2016
di Franco Zambelloni

Nell’era della comunicazione – come molti ormai definiscono questo nostro tempo – l’informazione cresce e si moltiplica con ritmo esponenziale. Uno studio dell’Università di Berkeley, che giunge però solo fino al 2006, ha raggiunto queste conclusioni: tra il 2001 e il 2004 si sono prodotte tante informazioni quante nei trent’anni precedenti; in quei trent’anni, poi – dal 1970 al 2000 –, il volume dell’informazione prodotto risulta equivalente a tutta quella tramandata dalla nascita della scrittura fino al 1970. Grosso modo, dunque, in trent’anni sono state comunicate notizie, opinioni, racconti, pensieri profondi e frottole equivalenti a quelli trasmessi in più di cinquemila anni; ma, dopo il 2000, lo stesso volume di dati ha richiesto solo quattro anni per essere eguagliato; infine, la medesima quantità d’informazione si è prodotta in un solo biennio, dal 2004 al 2006. Roba da far girare la testa.

Sono molti i problemi sollevati dalle conclusioni di questa ricerca. Il primo è che il voler rimanere pienamente aggiornati, sia pure solo nell’ambito dei propri interessi, diventa impossibile, perché richiederebbe più tempo di quanto la vita ne mette a disposizione. Ma anche solo la lettura di alcuni quotidiani, per sapere come va il mondo, richiede non poco tempo; e, d’altra parte, è bene cogliere le stesse informazioni da schieramenti ideologici diversi, perché solo soppesando punti di vista diversi o anche opposti si può forse intravedere una valutazione obiettiva. Ma quel «forse» va rimarcato: il bianco e il nero, il semplicemente vero e il totalmente falso non si trovano ormai in nessuna testata ed è molto difficile individuare la sfumatura di grigio che sia più probabilmente vicina alla realtà.

Poi, specie con l’informazione digitale che straripa dalla Rete, ciascuno può non solo dire la propria opinione o dare una propria versione dei fatti, ma può anche inventarseli di sana pianta. Come difendersi? Chi possiede una cultura abbastanza solida è in grado, in genere, di riconoscere la validità o meno dell’informazione, ma i giovani sono per lo più allo sbaraglio nella foresta dei dati e rischiano facilmente di pigliare per oro colato quel che è persino un’evidente falsificazione. Ci sono siti maggiormente affidabili, ai quali si può attingere con una certa fiducia: l’enciclopedia multimediale di Wikipedia, ad esempio. Ma anche in questo caso la garanzia non è affatto assoluta: pochi mesi fa i quotidiani ticinesi davano notizia di un’effrazione che sarebbe stata compiuta da alcuni funzionari pubblici che, in tempo di lavoro, avrebbero pubblicato, appunto nelle pagine di Wikipedia, informazioni fasulle su alcuni comuni ticinesi. Come sia finita la vicenda, che era stata oggetto di un’interrogazione parlamentare, non l’ho mai saputo. E, naturalmente, rimane il dubbio se la notizia fosse vera.

Viene da rimpiangere il tempo (era il Settecento, il secolo dei Lumi) nel quale Lessing poteva scrivere «Viel muss man lesen, nicht vielerlei»: bisogna leggere molto, non molte cose. È pur vero che, a quei tempi, solo una minoranza della popolazione sapeva leggere. Oggi, in teoria, tutti o quasi, almeno in Occidente, dovrebbero saper leggere. Ma a che serve? La sovrabbondanza dell’informazione è una foresta nella quale ci si smarrisce. E poi, la stessa sovrabbondanza offusca la memoria: e purtroppo vale ancora quanto Beatrice raccomandava a Dante nel primo canto del Paradiso: di prestare ascolto e di fissare bene nella mente la spiegazione, «ché non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso»; se capisci, ma poi non ricordi, la tua cultura è nulla. Ma oggi si tende a pensare – specie tra i giovani – che la cultura è un archivio esterno, non depositato nella mente individuale ma diffuso nella memoria artificiale della Rete. Se ti serve un’informazione vai in internet e la peschi lì, e poco importa se è un dato attendibile oppure una bufala.

Dunque, milioni di potenziali giovani lettori di oggi rischiano di essere sempre disinformati pur disponendo di un’informazione quale non c’è mai stata.

Ma è poi vero che i lettori sono così tanti? Da ripetute inchieste emergono a tratti dati inquietanti su quello che viene chiamato «analfabetismo di ritorno», che sembra un fenomeno capillarmente diffuso in molti Paesi; qualche anno fa, un settimanale italiano tra i più autorevoli conduceva un’indagine a seguito della quale dichiarava: «Oltre la metà degli italiani non sa leggere i giornali». Una notizia sconfortante. Ma sarà vera?