L’India, non solo indù

/ 20.01.2020
di Peter Schiesser

Se guardiamo all’Asia, l’attenzione è catturata dalla Cina, per il conflitto con gli Stati Uniti, per le sue mire geopolitiche, per la repressione in Tibet e nello Xinjiang. Ma quel che succede nella più vasta dittatura del mondo non deve farci dimenticare la più vasta democrazia del mondo: l’India – nel sesto anno di potere del primo ministro Narendra Modi, massimo esponente del BJP, il partito nazionalista indù. La democrazia indiana ha vissuto altri periodi bui, per esempio la Emergency , quei 18 mesi fra 1975 e 1977 in cui Indira Gandhi sospese le libertà civili e governò per decreti (inappellabili), ma quanto sta avvenendo nel secondo mandato di Modi ha il potenziale di modificare alle fondamenta questo paese-continente (grande 80 volte la Svizzera), al grido di hindu first !

Nel maggio del 2019 Narendra Modi è stato rieletto con più voti di cinque anni prima, in agosto ha dato ordine di dissolvere lo Stato del Jammu e Kashmir (quest’ultima regione, a maggioranza musulmana), da allora la valle del Kashmir brulica ancora più di soldati indiani e resta senza accesso internet. Con un colpo di spugna, il governo del BJP ha cancellato la semi autonomia concessa ai kashmiri in cambio dell’appartenenza all’India, rinfocolando tensioni che solo a fatica nei decenni si erano affievolite, dopo la sanguinosa insurrezione scoppiata nel 1989. La valle del Kashmir è oggi per l’India quello che da decenni è il Tibet per la Cina (e ora anche lo Xinjiang): una regione in cui la popolazione è in prigione a casa propria.

Ma il colpo più radicale il governo Modi l’ha sferrato a metà dicembre 2019 con la nuova legge sulla nazionalità, il Citizenship amendment act, che riconosce la cittadinanza indiana a rifugiati indù, sikh, jain, buddisti, cristiani e parsi da Pakistan, Bangladesh e Afghanistan se perseguitati per ragioni religiose – ma non a musulmani (benché anche talune sette musulmane subiscano persecuzioni in questi paesi) e ad altre minoranze. Questa legge è stata immediatamente giudicata per quello che rappresenta: un ulteriore passo verso una trasformazione dell’India da paese laico e multinazionale in nazione indù (e anti-musulmana). Da allora le proteste raccolgono centinaia di migliaia di persone in diverse grandi città indiane. Ad un alto prezzo, però: decine di persone sono state uccise, centinaia ferite dalla polizia indiana, alcune università assaltate a Delhi (la Jamia Millia Islamia e quella di orientamento progressista, la prestigiosa Jawaharlal Nehru University). Ma la protesta continua, c’è un’opposizione civile che va al di là di quella musulmana, poiché in gioco ci sono i fondamenti della costituzione laico del 1950, che negava espressamente qualsiasi legame fra nazionalità e religione. Il Nobel dell’economia Amartya Sen l’ha espresso in modo chiaro, recentemente a Bangalore: «La Corte suprema dovrebbe bocciare questa legge in quanto incostituzionale, poiché non puoi difendere determinati diritti umani fondamentali se leghi la cittadinanza alle differenze religiose».

Non sembra che il governo Modi intenda fare marcia indietro, piuttosto sono da attendersi altre mosse che discriminino i musulmani (220 milioni su 1,3 miliardi), perché il disegno dei nazionalisti indù è di trasformare l’India nella patria degli indù, in cui comandano solo loro. Non tutti coloro che hanno votato per Modi condividono questa ideologia, gli hanno dato fiducia per le sue promesse di maggiore benessere. Se non ci riuscirà neppure nel secondo mandato (nel primo non c’è riuscito), verrebbe scalzato dal potere, e l’India tornerebbe ad essere il caotico caleidoscopio etnico-religioso che è.