L’incontro mancante

/ 02.03.2020
di Lina Bertola

A quasi tutti gli edifici pubblici, banche, grandi magazzini, uffici, ospedali, si accede oggi attraverso porte scorrevoli, spesso invisibili, impercettibili. Una cellula elettronica «sente» la presenza di un corpo e lo invita a continuare il suo cammino senza dover sostare su un confine, senza dover sperimentare fisicamente la presenza di una soglia.

Un bel progresso nel nostro rapporto sempre più competitivo e conflittuale con il tempo; un bel progresso, anche, nella lotta ai germi delle maniglie.

Ma in questo nostro camminare senza più una soglia da riconoscere, da attraversare con la fisicità di un gesto, ciò che spesso viene a mancare è anche la percezione di un passaggio, di un confine tra un «dentro» e un «fuori».

Questi dettagli, apparentemente insignificanti, sembrano così volerci suggerire anche qualcos’altro, qualcosa che ci tocca in prima persona nel nostro sperimentare la vita. Sembrano volerci suggerire la rimozione di una soglia più intima: quella soglia che ci invita ad aprirci al nostro mondo interiore. Una soglia oggi spesso smarrita nella totale confusione tra il nostro sé intimo e quell’io esteriore con il quale siamo tutti convocati ad esibirci sulla scena del mondo.

Ma questi dettagli apparentemente insignificanti, queste porte discrete e impercettibili, pronte ad offrirci un’autostrada simbolica, senza intoppi sul nostro cammino solitario, sembrano evocare anche altri aspetti del nostro abitare la vita.

Su un cammino solitario, senza soglie e senza soste, appare, in controluce, anche la fragilità di un’altra soglia: di quel luogo intimo da cui il mio io si apre alla presenza dell’Altro.

Gli spazi, insomma, sembrano raccontare anche quel che accade all’anima nel nostro attuale modo di stare al mondo.

Un racconto che continua a parlarci anche quando, al contrario, siamo costretti a fermarci, a sostare davanti ad un portone per accedere a uno di quei rari storici edifici che ancora sopravvivono allo scempio architettonico.

Nel Palazzo degli Studi di Lugano, ad esempio, si entra da pesanti portoni di legno e ferro battuto, mantenuti intatti grazie ad un pregiato restauro conservativo. Più volte mi è capitato di arrivare con borse piene di libri, ritrovandomi puntualmente il macigno sbattuto in faccia dallo studente o dalla studentessa che camminava davanti a me. Mai qualcuno che si voltasse per tenermi aperto il portone. Mai nessuno che sentisse la presenza di un possibile altro sul suo stesso cammino.

Dettagli apparentemente irrilevanti, gesti minimi della quotidianità, a suggerire anche tutta la fragilità del nostro sentimento di una comune appartenenza.

«Homo homini lupus»: l’uomo è un lupo per l’altro uomo, scriveva il filosofo inglese Thomas Hobbes all’inizio del Seicento. La natura umana ci predispone ad una guerra di tutti contro tutti; ciò che prevale è il desiderio di prevaricazione nei confronti del prossimo.

Il pensiero moderno ha in seguito elaborato una visione più serena dell’individuo, in grado di superare la cruenta rappresentazione hobbesiana.

La «guerra di tutti contro tutti» poteva essere superata grazie a nuove forme di appartenenza.

Si è cominciato a riconoscere la presenza di una naturale socievolezza nutrita dal valore positivo di una pacifica competizione economica. Basati sulla simpatia, i rapporti umani avrebbero facilmente consentito all’interesse personale di tradursi in interesse generale.

Con le parole di Kant, l’Illuminismo esprime poi grande fiducia in un progresso morale alimentato dal sentimento di comune appartenenza: «Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua persona e nella persona dell’altro, sempre come un fine e non come un semplice mezzo».

Un messaggio luminoso: sentire la propria appartenenza all’umanità come nutrimento del vivere e del convivere e pensarla, anche, come un fine condiviso.

Questi ideali della modernità appaiono oggi minacciati dalle profonde trasformazioni in atto nelle nostre società, dal mondo del lavoro alle forme di comunicazione globale.

Incertezza e solitudine generano spesso una dolorosa e triste guerra tra poveri. Un clima divenuto aggressivo, anche nei suoi linguaggi, sembra mettere in scena una vera e propria regressione alla visione hobbesiana della convivenza, con il rischio di mandare in pezzi ogni sentimento di comune appartenenza.

E così, sempre più spesso, diventiamo incapaci di un incontro con noi stessi e con l’Altro, mentre costruiamo muri, in giro per il mondo e dentro i nostri cuori.