Riprendo la questione lasciata in sospeso nel mio ultimo intervento: è possibile trasformare l’imprevedibilità della vita in una risorsa? È possibile riuscire a viverla anche come una forma di apertura e non solo come un limite, purtroppo inevitabile, della nostra esperienza del mondo?
Per incamminarci verso questa possibilità, avevo concluso citando Edgar Morin e la sua descrizione dell’imprevedibile come qualcosa di inatteso. L’idea di inatteso mi sembra interessante perché ci invita ad assumere un altro sguardo verso il futuro, a riconoscere altre atmosfere e altri orizzonti in cui sperimentare il nostro vivere e convivere. Può indicare anche qualcos’altro rispetto a ciò che chiamiamo imprevisto, perché non abbiamo saputo correttamente prevederlo.
L’inatteso è certamente un evento indesiderato e spiacevole quando smentisce le nostre previsioni, ma la parola inatteso può pure significare qualcosa che sta fuori dalla logica della previsione: un accadere che semplicemente ci sorprende nel suo presentarsi ai nostri occhi. Un evento inatteso può esporci alla vita per quello che è, o che può essere. Può esporci a una forma originaria di attesa: a quell’attendere l’inatteso che Morin considera fondamentale per imparare a vivere. Un’esperienza libera, liberata dai codici di riferimento della razionalità che sempre misura e calcola, a cui rischiamo di consegnare tutto il senso del vivere.
Certamente la capacità di prevedere è un valore inestimabile della conoscenza, oltre che un bisogno fondamentale della vita psichica. Per questo motivo, sperimentare l’imprevedibilità può essere percepito come un limite. Ma il bisogno di prevedere tutto provoca anche conseguenze non sempre positive, come il desiderio esasperato di controllo razionale di cose, fatti, situazioni. Il controllo diventa allora desiderio di possesso, di dominio della realtà, con effetti ben visibili nel cosiddetto progresso tecnologico. Questa logica del controllo alimenta anche il bisogno di sicurezza. Ecco che allora assicuriamo tutto, e ben venga ogni forma di assicurazione che mi protegga se qualcosa non va secondo le mie aspettative: ancora una volta, è la logica calcolatrice che garantisce il risarcimento dei danni, ovvero degli imprevisti.
Ma è proprio tutta rinchiusa qui la nostra esperienza della vita? È tutta rinchiusa nel bisogno di misurarla, prevederla e controllarla? Il filosofo Serge Latouche parla di un mondo ridotto a mercato: magari esagera un po’, ma in questa visione c’è, purtroppo, un fondo di verità. Eppure, fuori dalle «gabbie» di questa razionalità calcolatrice, ci deve essere un altro mondo per noi, altre possibili esperienze che ci invitino ad andare oltre questi schemi interpretativi per riconoscere, della vita, anche altre voci, anche un altro respiro. Il respiro di queste voci sembra custodito proprio in quell’inatteso che ci espone alla vita e al suo darsi originario e generativo.
Come riconoscerlo, come accoglierlo? Una risposta possibile ci viene dalla poesia, perché la poesia è un’esperienza originaria della vita. Può appartenere a ciascuno di noi quando riusciamo ad accogliere la realtà che ci viene incontro mettendoci in ascolto del suo nascere e del suo sbocciare e a sentirne la presenza in un’esperienza contemplativa. Questa accoglienza contemplativa della realtà è una straordinaria risorsa per non restare prigionieri del suo volto misurato, calcolato, usato e scambiato: succede quando riusciamo ad abitare anche poeticamente la vita. In un suo delizioso libriccino, Christian Bobin osserva: «abbiamo reso il mondo estraneo a noi stessi, e forse ciò che chiamiamo poesia è solo riabitare questo mondo e addomesticarlo di nuovo». Abitare poeticamente la vita è rinascita a sé stessi, e l’esperienza contemplativa che la alimenta non è altro che un modo di prendersi cura della vita: «è un demolire tutto ciò che in noi assomiglia ad un’avidità». Contemplare è guardare e «commuoversi per l’assenza di differenza tra ciò che vediamo e ciò che siamo». I contemplativi possono essere i poeti conosciuti come tali, scrive, ma anche un imbianchino che fischietta come un merlo in una stanza vuota. O una madre che rimbocca il lenzuolo del suo bambino, ed è come se si prendesse cura di tutto il cielo stellato.
La poesia della vita è un dono straordinario per ciascuno di noi, un dono che risuona anche nella voce dei poeti. Qui è Alda Merini a suggerirci il viaggio verso l’inatteso.
Amate i poeti / essi hanno vangato per voi la terra (…) pensate che potete camminare su di noi / come su dei grandi tappeti / e volare oltre questa triste realtà / quotidiana.