L'importanza di avere un leader

/ 04.12.2017
di Aldo Cazzullo

Ho visto in anteprima un film che mi ha molto colpito. Si intitola The darkest hour, «L’ora più buia», ma potrebbe intitolarsi «L’importanza di avere un leader», o di esserlo. La scena chiave è quando Winston Churchill, premier da pochi giorni, sale in metropolitana. È la prima volta in vita sua, ha già tentato di farlo in un giorno di sciopero, ma si è perso. Nel vagone tutti lo riconoscono, e anziché insultarlo o ignorarlo come magari farebbero oggi,  si alzano in piedi, gli danno la mano e si presentano. Churchill improvvisa un sondaggio: la Francia sta per capitolare, i nazisti preparano l’invasione dell’Inghilterra; bisogna trattare? «Never! Never!» gridano tutti, muratori, neri, donne, pure una bambina: «Mai!». Cosa bisogna fare, allora? «Fight!», combattere! È lì che Churchill, tentato dall’ipotesi trattare con Hitler attraverso «il lacché Mussolini», matura la sua scelta e il suo successivo discorso in Parlamento: «Combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria, combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei campi e nelle strade... Non ci arrenderemo mai».

L’episodio della metro non è storicamente attestato, ma è verosimile. Churchill viveva tra il bunker e Westminster, ma talora si concedeva un’incursione tra la gente comune, spesso conclusa dalle lacrime. Il film di Joe Wright – uscirà prima in America, poi in Inghilterra, infine nel resto d’Europa – è l’ideale seguito di Dunkirk. Se l’opera di Christopher Nolan mostrava la reazione di un esercito e di un popolo, questa racconta i tormenti e la decisione di un leader. L’unica scena in comune è l’arrivo delle barche da diporto sulla spiaggia di Dunkerque, per riportare in Inghilterra «our boys», i nostri ragazzi, come li chiama Churchill. Per il resto è un film che rischierebbe di risultare claustrofobico, se non fosse per la recitazione di Gary Oldman (può apparire caricaturale solo a chi non ha ascoltato i discorsi di Churchill, pronunciati con la voce impastata dallo scotch) e dalla forza straordinaria delle parole e dall’empatia del capo con la nazione.

Churchill non è un populista, anzi, è figlio di un’Inghilterra privilegiata e lo rivendica; ma sa che il cedimento al nazismo avrebbe conseguenze gravi soprattutto per la classe popolare. Non ha «il dono della sobrietà»: beve whisky a colazione, ha «una sregolatezza nel sangue» che gli viene sia da una madre «troppo diffusamente amata» e da un padre che era «come Dio: sempre impegnato altrove». La prima volta che si è fatto fotografare con le dita a V (non per Vendetta ma per Vittoria) l’ha fatto mostrando il dorso anziché il palmo della mano, con un gesto che nei quartieri popolari viene letto come oggi il dito medio. Non arricchisce parrucchieri come farà Hollande, né truccatori come Macron. Non è neppure stato eletto dal popolo; è subentrato al premier Neville Chamberlain perché è l’unico nome che i laburisti sono disposti ad appoggiare per costruire una «grand coalition».

Soprattutto, Churchill è solo. Può contare su una moglie devota (Kristin Scott Thomas) e su figli affezionati ma assenti. Il suo partito gli è ostile. Il suo alleato Roosevelt rifiuta di consegnargli gli aerei che il governo britannico ha pagato, «al massimo potete farli trainare in territorio canadese dai cavalli, ma niente di motorizzato» («cavalli?!» si dispera Churchill). Il suo primo grande discorso ai Comuni – «non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime, sudore» – viene accolto dal gelo dei deputati. Il suo ministro degli Esteri, visconte Halifax, trama contro di lui e attraverso l’ambasciatore italiano avvia trattative di pace, cioè di resa. Il re, amico personale di Halifax, lo subisce. Gli offre la mano da baciare e se la strofina dietro la schiena. Gli propone di vedersi ogni lunedì alle 4 del pomeriggio e si sente rispondere: «A quell’ora dormo. Lavoro di notte». A pranzo gli chiede: «Come fa lei a bere sempre, anche di giorno?» («practice», allenamento, è la risposta). Eppure sarà proprio Giorgio VI, con la sua balbuzie resa ormai celebre sempre dal cinema (Il discorso del re), a consigliargli di ascoltare il popolo, e a confortarlo nella scena di non arrendersi, di combattere.

E davvero viene da pensare come sarebbe cambiata la storia del mondo se il fratello Edoardo, filotedesco, non avesse abdicato per amore (una scelta assecondata da Churchill, con un misto di intuito preveggenza). Nel suo bel libro Fatherland, patria, Robert Harris ipotizza uno scenario drammatico: la resa dell’Inghilterra, la vittoria di Hitler nella Seconda guerra mondiale, una Russia trasformata dai nazisti in una landa semideserta di sottouomini rassegnati o ribelli. L’autore immagina che Hitler all’apice del trionfo sia stato tentato dall’idea di invadere pure la Svizzera, ma poi aveva deciso che una zona franca poteva servirgli anche sul piano diplomatico. Per fortuna Hitler nella realtà non ha vinto; proprio perché l’Inghilterra non si è arresa.