Per il fatto di portare un bel numero di anni sulle spalle non siamo di quelli che pensano che un fatto nuovo, e per di più inatteso, come la pandemia, nella quale ci troviamo, cambierà fondamentalmente il nostro modo di vivere. Una volta che le situazioni eccezionali arrivano alla fine, la gente è portata a rientrare nei parametri comuni del suo vivere quotidiano. Non è tuttavia da escludere che, anche in economia, la pandemia porti a modificare qualche giudizio. Per esempio che in futuro si riconosca, più di quanto non sia stato il caso negli ultimi tre decenni, che lo Stato gioca un ruolo di primo piano nel conseguire e assicurare il benessere economico di una comunità. E non solo in situazioni eccezionali come quella nella quale stiamo vivendo. Se così fosse, è possibile che coloro che commentano i fatti economici riscoprano le argomentazioni che Alvin H. Hansen, un economista americano che insegnò a Harvard, aveva formulato, negli anni Sessanta dello scorso secolo, in merito al ruolo che il settore pubblico sarebbe stato chiamato a giocare in un’economia nella quale le attività di produzione andavano automatizzandosi e la domanda di lavoro nei settori di produzione tradizionale sembrava essere destinata a ridursi a poca cosa.
Riscoprire quanto affermava Hansen può essere utile anche perché tra il processo di automazione della produzione di quell’epoca e la tendenza alla digitalizzazione e alla robotizzazione dei processi produttivi di oggi esistono, quanto alle conseguenze negative sull’evoluzione della domanda di lavoro, veramente pochissime differenze. Seguiamo dunque l’argomentazione del professore di Harvard a proposito delle conseguenze dell’automazione. Per lui l’economia poteva essere suddivisa in un settore privato, che era quello che, di fatto, produceva i beni di consumo e di investimento, e un settore pubblico e para-pubblico che, invece, metteva a disposizione di aziende e popolazione una serie di servizi indispensabili come, per fare solo due esempi, quelli dell’educazione e quelli della protezione della salute. L’automazione dei processi di produzione industriale avrebbe determinato una riduzione dell’occupazione nel settore privato, perché in quel settore i robot, l’informatica e l’intelligenza artificiale (allora si parlava ancora di cibernetica), sarebbero stati in grado di sostituire un ampio ventaglio di qualifiche lavorative e di posti di lavoro. Di conseguenza la quota di occupati nel settore privato sarebbe diminuita a favore della quota di occupati nel settore pubblico e para-pubblico, non da ultimo perché le attività del settore pubblico non potevano essere automatizzate (oggi diremmo piuttosto digitalizzate e robotizzate) facilmente.
Hansen pensava così che i posti di lavoro che si sarebbero persi nel settore privato potevano essere recuperati nel settore pubblico. Tuttavia in questa descrizione del possibile sopravvento del settore pubblico, come datore di lavoro, su quello privato si presentava un grosso «ma»: quello costituito dalla questione del finanziamento delle attività dello Stato. Tradizionalmente, affermava Hansen, si pensa che queste attività siano finanziate dai proventi delle imposte e delle tasse che provengono dal settore privato. Ora, se nell’economia automatizzata di ieri, come in quella dell’informatica e della robotizzazione di oggi, il settore privato era, ed è, destinato a declinare, chi avrebbe messo a disposizione o metterà a disposizione i mezzi finanziari necessari per assicurare l’espansione dei servizi dello Stato? Sarebbe stato in grado lo Stato di creare i mezzi necessari per finanziare le sue attività? Hansen dimostrava che i servizi del settore pubblico e para-pubblico, come quelli del settore privato, potevano creare valore aggiunto e distribuire salari. Quindi anche queste attività erano in grado di generare introiti fiscali interessanti. Per capire che questa tesi è fondata basta pensare che, negli ultimi cinquant’anni la quota del settore pubblico e para-pubblico nell’occupazione è certamente più che raddoppiata mentre il gettito delle imposte non è diminuito nemmeno di un ette. Anzi…!