L’impatto della pandemia sul mercato del lavoro

/ 14.03.2022
di Angelo Rossi

Ora che controlli e restrizioni stanno per scomparire cominciano a essere pubblicati i bilanci di quel che è successo nella nostra economia durante la pandemia degli ultimi due anni. Nel numero appena distribuito di «Tendenze congiunturali», il quadrimestrale della Segreteria di Stato per l’economia, sono stati per esempio pubblicati i risultati di un’analisi di dettaglio realizzata da Martin Wagenbach, uno dei suoi collaboratori. Questo ricercatore ha messo a fuoco gli effetti della pandemia, e, in particolare, delle misure per combattere la stessa, su alcuni indicatori importanti del mercato del lavoro nazionale. Si viene così a sapere che la recessione indotta dalle prime misure antipandemiche è stata più forte per il prodotto interno lordo che per l’occupazione. Non è che ci sia molto da rallegrarsi: che la diminuzione del livello di occupazione sia stata più contenuta (in percentuale naturalmente) della diminuzione conosciuta del prodotto interno lordo reale significa solamente che anche il livello di produttività è diminuito.

Dunque l’impatto negativo delle prime misure è stato significativo per ambedue i fattori di produzione della nostra economia: per il lavoro come per il capitale. Negativo sì, ma contenuto, almeno se lo compariamo a quanto è successo in altre nazioni europee. La stessa constatazione vale anche per l’evoluzione del tasso di disoccupazione. Comparato ai livelli di prima della crisi, il tasso di disoccupazione è aumentato di un 1% per quel che riguarda la manodopera femminile e di un 1,2% per quel che concerne la manodopera maschile. Non si tratta di una grande differenza. Statisticamente parlando, la stessa è appena significativa. È comunque da rilevare che, per una volta, a far le spese dell’incrinatura congiunturale sono stati più gli uomini occupati delle donne. Di solito, in caso di recessione, succede il contrario. Se compariamo l’evoluzione dei tassi di disoccupazione per classi di età ci accorgiamo che, lungo tutto il percorso della pandemia sono stati i lavoratori tra i 25 e i 49 anni a dover sopportare i tassi di disoccupazione piè elevati.

I lavoratori con meno di 25 anni hanno visto il loro tasso di disoccupazione aumentare rapidamente, all’inizio della pandemia – diciamo tra marzo e aprile del 2020 – ma poi lo stesso ha continuato a discendere fino ad oggi. Praticamente, a partire dal 2021, in Svizzera i lavoratori giovani sono quelli che meno sono stati toccati dalla disoccupazione. In senso inverso, invece, si è sviluppato il tasso di disoccupazione dei lavoratori più anziani. All’inizio della pandemia gli stessi erano probabilmente protetti dai licenziamenti più degli altri gruppi di età. Poi invece il loro tasso di disoccupazione è cresciuto fino a superare quello dei lavoratori giovani, all’inizio del 2021, e a raggiungere quello dei lavoratori di media età, nell’autunno dello stesso anno. È possibile che i modi di applicazione dell’indennità per disoccupazione parziale siano all’origine di queste differenze nell’andamento temporale dei tassi di disoccupazione per classi di età.

Relativamente alla disoccupazione lo studio di Wagenbach ci consente anche di stabilire quali siano state le conseguenze della pandemia sull’evoluzione della disoccupazione nelle grandi regioni del paese. Ovviamente il Röstigraben che esisteva già prima della pandemia ha continuato a manifestarsi anche durante la stessa. Così mentre il tasso di disoccupazione medio del periodo pandemico è stato, a livello nazionale, pari al 2,8%, in Ticino e Romandia ha toccato un livello più elevato di quasi un punto, 3,7%. Anche nei valori minimi e in quelli massimi raggiunti da questo tasso durante la pandemia Ticino e Romandia superano le altre regioni del paese di almeno un punto percentuale, ragione per cui i valori della nostra regione non sono poi così lontani da quelli delle altre economie dell’Unione Europea.

Da ultimo segnaliamo ai lettori un recente, interessantissimo, contributo dell’Osservatorio per lo sviluppo territoriale dell’USI che riguarda gli effetti della pandemia sulle tendenze alla concentrazione della popolazione nelle aree metropolitane maggiori del nostro paese. Sembrerebbe che la pandemia sia stata in grado di arrestare questa tendenza, in atto oramai da diversi anni. Prime conseguenze dello home-office che diventa permanente? Con la pandemia la periferia potrebbe dunque ricominciare a vivere? Mah, stiamo a vedere!