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L’immagine del Padre

/ 13.07.2020
di Silvia Vegetti Finzi

Buongiorno gentile signora Silvia,
da un po’ di tempo leggo la sua stanza per due motivi principalmente, il primo è che mi offre uno spaccato della società reale; l’altro la banale saggezza di chi sa ascoltare e che risponde dopo ponderazione, cioè lei. Ma la lettera di oggi, quella della signora Paola, mi ha portato un pensiero che avevo accantonato e cioè l’immagine di Dio che ha la massa delle persone. Tutti, o comunque la stragrande maggioranza, hanno un’idea di un Dio antropomorfo, un qualcuno che ti guarda con due occhi e ti ascolta con due orecchie e che alla fine ti dà un responso che coincide con ciò che ti auspicavi sia nel bene che nel male. Io credo in Dio, ma non quella cosa acchiappa merluzzi che propongono tutte le chiese; in un Dio entità perfetta creatrice ma indefinibile, un qualcosa, non certo un qualcuno, talmente totale da sfuggire alla nostra limitatezza umana, la limitatezza di un essere che può solo riferirsi a ciò di cui ha esperienza. Quel Dio che cercano all’esterno non è che la proiezione di ciò che hanno all’interno; non è altro che l’esame di coscienza, quel guardarsi dentro con gli occhi dello stato d’animo del momento, scuro e rimproverante se si sentono in colpa, solare ed approvante se si sentono in pace con se stessi.

Questa è la faccia che mi sorride in un vento di per sé non positivo, la morte di mio genero che era per noi, mia moglie me, il terzo figlio. Dopo la botta che mi piegò le ginocchia grazie a Gaia, la nipote rimasta orfana che aveva sedici mesi, mi sono rialzato ed ho cominciato a considerare l’evento come fosse una pietra tagliata da un gioielliere e che aveva molte, tante facce, e l’ho girato e rigirato guardandole tutte, da quella nera dell’evento fino a quella solare del sorriso di Gaia, la faccia che m’ha portato a riflettere molto, all’introspezione da chirurgo, col bisturi per asportare ciò che ritenevo metastatico per lasciar spazio alla fusione dei sentimenti con il raziocinio; quest’ultimo sempre presente a gestire, non soffocare, i sentimenti.
Ma ora penso che non sia il caso che sia io nel confessionale. Con amichevole stima. / Diego B.

Gentile Diego,
la ringrazio per essere entrato ne La stanza del dialogo, apportandovi un contributo straordinario di riflessione e interrogazione. La parola «Dio» suscita sempre, in chi sa leggerla, un vortice inesausto di pensieri, quasi il suo significato fosse troppo arduo e complesso per le nostre menti. Di fatto non esiste un solo Dio né nel tempo né nello spazio: ogni civiltà lo rappresenta in modo diverso benché esprima le medesime domande sul significato e il senso della nostra povera vita.

Lei osserva che, per la massa, Dio è una figura antropomorfa, una proiezione dello stato d’animo del momento. Freud direbbe che è così perché costituisce l’interiorizzazione del padre reale, il ricordo della presenza forte e protettiva che ha rassicurato la nostra infanzia. Ma poi Freud stesso, oltrepassando quella spiegazione psicologica, s’inoltra in concettualizzazioni teologiche di ben altra portata. Proprio per sottrarre la concezione della divinità alle strettoie autobiografiche, ebraismo e islamismo proibiscono, con l’iconoclastia, la rappresentazione della divinità. Ma credo che anche nelle persone più colte, più introdotte negli studi teologici, permanga, accanto al concetto astratto e formale di Dio, l’immagine infantile del Padre buono. È a lui che ci rivolgiamo nel momento del bisogno, quando la paura, la solitudine e il dolore sembrano travolgerci, è a lui che con voce tremante chiediamo aiuto e conforto quando il prossimo sembra abbandonarci. La fede, che risponde all’insufficienza della ragione, ci dice che Dio è ben altro, che trascende la realtà, che è eterno, infinito e onnipotente, oggetto di una ricerca che non ha avrà mai fine.

Eppure lei l’ha riconosciuto, non in una istanza metafisica, ma nel corpo morto di suo genero, un giovane che il vostro amore aveva collocato nella posizione di figlio. Non a caso il Dio cristiano si è incarnato in un corpo umano e come tale ha vissuto, sofferto e affrontato la morte. Delle tre figure trinitarie lo Spirito Santo è la più teologica ma le altre due, padre e figlio, sono quelle che sentiamo più vicine a noi, più responsabili della nostra sorte. Il Dio dei filosofi, di Platone e di Kant, astratto e formale, depurato da ogni scoria infantile, ci convince razionalmente ma non ci coinvolge emotivamente, non ci rende «folli» di passione, come San Francesco.

È significativo che lei sia uscito dal gorgo del lutto grazie al sorriso della sua nipotina, alla gioia di vivere della piccola Gaia che, del padre, rappresenta la prosecuzione nella catena delle generazioni. Vuol dire che Dio s’incarna nel volto dell’altro, che è nelle relazioni umane più intense e più vere che si sperimenta la dimensione del sacro, l’incidenza di un tempo verticale che spezza la continuità lineare del tempo cronologico, facendo intravvedere, in uno squarcio violento del presente, la trascendenza che ci rende umani. A questo corrisponde forse il meteorite sfaccettato su cui lei cerca, giustamente, la coesistenza di ragione e passione.

Tuttavia non disprezzi, la prego, la divinità, paterna e materna, attribuita alla «massa delle persone». In fondo è quella che ognuno invoca al momento della morte, quando il ciclo della vita si chiude riportandoci là da dove siamo venuti, all’ignoto.