Il like per la Generazione Z è il buonumore che torna se l’influencer di turno a cui è dedicata la fanpage sui social mette il cuoricino sul post («L’ha visto!»), il sorriso sul viso quando il proprio account è menzionato nelle storie Instagram degli amici («Mi hanno taggata!»), il compiacimento che cresce all’aumentare dei follower («Mi seguono!»). È importante essere nel gruppo WhatsApp giusto per organizzare le uscite e riuscire a postare su TikTok, dopo un pomeriggio di tentativi, dieci secondi di video che riscuotano successo con le mosse del momento. A 18 anni c’è già chi mette il proprio nome e foto su Tinder, l’app per gli incontri, non per fare sesso ma per misurare il consenso che ottiene a colpi di «Mi piace».
L’adolescenza da sempre è il periodo della vita dove il riconoscimento sociale è più importante che mai. Il problema è che con la Generazione Like, come avevamo titolato già tre anni fa un Caffè delle mamme, la popolarità non fa i conti solo con la vita reale, ma anche con il consenso virtuale. Così i sentimenti di inclusione o esclusione sociale si amplificano. Come ben sottolinea ne Il secolo della solitudine l’economista britannica Noreena Hertz, collaboratrice di «The Washington Post», «The Observer» e «The Guardian» e ospite abituale della Cnn e della Bbc, i social media ingigantiscono il continuo processo di doversi vendere e la paura che nessuno voglia comprare. Proprio per evitare la like-dipendenza su volere di Adam Mosseri, la mente di Instagram e già tra i dirigenti di Facebook, per un anno e mezzo in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, su Instagram è stato soppresso il conteggio pubblico dei «Mi piace»: io posso vedere il numero di quanti cuoricini vengono messi ai miei post, ma non conosco il tuo ed evito confronti che possono distruggere l’autostima. Dallo scorso maggio, invece, ciascuno può scegliere se attivare il conteggio pubblico o meno. In ogni caso, per un giovanissimo resta il confronto con il proprio io. Difficile.
Nel suo saggio Noreena Hertz riporta numerose esperienze di vita vissuta. C’è la figlia che mette maniacalmente «Mi piace» a ogni post che appare sulla propria bacheca per cercare di ottenere una risposta reciproca quando posta lei qualcosa. C’è il senso di agonia provato dallo studente londinese di terza media Peter nel pubblicare un post, aspettare e sperare, con nessuno che risponde e lui che si chiede continuamente: «Perché non piaccio a nessuno?». C’è Jamie che va in panico solo all’idea che una streak su Snapchat possa finire (qui il riferimento è alla moda tra i giovanissimi di fare a gara per tenere vive il più a lungo possibile le conversazioni con i propri contatti più stretti su Snapchat: caratteristica del social è che dopo 24 ore il messaggio inviato o ricevuto viene cancellato automaticamente, ma se per tre giorni consecutivi si scambia almeno un messaggio con la stessa persona, a destra del suo nome nella rubrica compare un fuocherello e un numero che indica da quanti giorni va avanti la conversazione).
È quello che, parafrasando il giornalista Massimo Gramellini, possiamo definire l’auditel esistenziale dei nostri figli. Che può scatenare il «Fomo», dall’inglese Fear Of Missing Out, la paura di essere tagliati fuori e il «Bomp», da Belief That Other Are More Popular, la convinzione che gli altri siano più popolari.
Io sono convinta che da genitori scandalizzarsi per la ricerca dei like dei nostri figli è un po’ ipocrita: il bisogno di popolarità c’era anche ai nostri tempi, e non possiamo dimenticarcene adesso che siamo mamme e papà, peraltro spesso noi stessi impegnati sui social (a guardarli o a postare). Noi dovevamo essere accettati dai compagni di classe, avere come amici quelli che ci sembravano i più «fighi», ottenere un ruolo di tutto rispetto nella squadra di pallavolo o di calcio. Tutto ciò a 12 o 13 anni già ci sembrava faticoso. Per gli adolescenti di oggi probabilmente lo è ancora di più. E anche per noi studiare le contromisure da prendere sta diventando sempre più complicato: quando i nostri genitori dovevano capire se qualcosa non andava lo potevano vedere nella vita reale. Noi non avevamo avatar che vivevano una vita parallela. Ma se davvero vogliamo tentare di capire almeno un po’ i nostri figli, innanzitutto non dobbiamo ignorare il fenomeno.