L’incertezza sui possibili sviluppi dell’emergenza sanitaria induce le istituzioni competenti a pensare e ripensare regole di comportamento che permettano di tenere sotto controllo l’epidemia.
Al di là di discutibili forme di insofferenza verso un potere ritenuto troppo invadente che sembrerebbe minacciare le nostre libertà, a me pare invece più interessante riflettere su un’altra questione che concerne il nostro modo di abitare la vita insieme agli altri. Mi riferisco alla poca attenzione riservata, in non pochi casi, a queste nuove regole e mi chiedo perché non sempre vengano recepite nel loro valore e fatichino ad essere accolte, accettate ed interiorizzate.
Una prima risposta ci è suggerita dalle parole di Kant. Le regole di comportamento che servono ad uno scopo non hanno molto a che vedere con l’agire morale. Il filosofo parla di imperativi ipotetici, azioni scelte in funzione di un altro obiettivo. Se voglio ottenere questo, nel nostro caso bloccare la pandemia e proteggere la mia salute, allora devo agire così. Queste norme mirano a incoraggiare comportamenti apprezzabili e condivisibili ma non interpellano quella che Kant chiama «la legge morale in me». Questa legge mi dice di scegliere un comportamento non per raggiungere un altro scopo, ma perché riconosciuto buono in sé stesso. Una finalità verso cui orientare la mia vita.
Mi sembra una distinzione molto interessante che può aiutarci a comprendere la nostra attitudine nei confronti di norme stabilite dall’esterno, ovvero norme che non nascono in noi come scelta personale. Oggi viviamo dentro una vera e propria cultura dei regolamenti che accompagna le relazioni tra le persone in ogni ambito della convivenza sociale.
La presenza di sempre nuove e mutevoli regole di comportamento, legate al Covid-19, non fa che esasperare una situazione già abbastanza diffusa nelle nostre società che qualche problemino etico lo pone di suo, a prescindere dalle accelerazioni dettate dal coronavirus.
Le regole deontologiche, i codici di comportamento, garantiscono buone relazioni fondate sulla correttezza del nostro agire. Ma questi regolamenti ci trattengono alla superficie della questione etica. Il rispetto di norme imposte dall’esterno, proprio come le regole di ogni gioco, non ci costringe ad interrogarci sul loro valore, non ci mette in contatto con una visione di ciò che è bene, ovvero con un punto di riferimento che preceda e dia un senso all’agire corretto. Se è corretto, ciò che faccio è anche buono, punto. Non sono sollecitato a chiedermi se la mia azione sia corretta perché buona. La differenza non è irrilevante e spiega anche una certa leggerezza e disattenzione quando le regole, come in questo periodo, si complicano un po’. Ciò che è in gioco è la differenza tra l’etica, che interpella il bene, e la deontologia che ci accoglie sulla soglia del bene, tra le braccia della correttezza.
L’idea del bene è spesso assente nel nostro modo di ragionare sui valori e sulle scelte. Certo, possiamo affermare che «va bene» quando si tratta di qualcosa di corretto e condivisibile. Ma il bene, inteso come ciò cui dovrebbero riferirsi azioni ritenute buone, spesso non abbiamo il coraggio di nominarlo. È come se una specie di autocensura si fosse impossessata di una parola ritenuta troppo impegnativa; una parola imbarazzante, anche, e questo perché spesso, proprio in nome del bene, dogmi, soprusi e violenze hanno segnato la storia.
Eppure, l’idea di ciò che è bene resta sullo sfondo del nostro agire come una bussola silenziosa.
Ce ne possiamo accorgere ogni volta che di fronte ad un’azione corretta, di fronte a una decisione legale, ci capita di restare perplessi e di sentirle come qualcosa di inopportuno. Regole corrette, giuste, ma inopportune, che non soddisfano il cuore. La parola inopportuno allude ad un valore che trascende la legalità. L’etimo contiene l’idea di un porto: una cosa inopportuna potrebbe essere una cosa che non riesce a raggiungere il suo porto. Un’azione inopportuna potrebbe essere quella che non arriva in porto, e il porto, potrebbe proprio essere quel bene che non abbiamo più il coraggio di nominare.
Mantenere uno sguardo attento su questo approdo, nominarlo senza falsi pudori, non significa certo voler definire ciò che è bene, con tutti i rischi di dogmatismo retrogrado che ciò comporterebbe. Riconoscerne la presenza significa semplicemente riuscire a percepirlo come idea limite, come un orizzonte verso cui sporgere lo sguardo, come forma universale del valore della vita. Un’idea limite che non dice che cosa dobbiamo fare ma indica solo come è bene camminare nella nostra vita. Un’occasione, forse, per superare le tante, troppe fragilità della convivenza.