Il primo segno, camminando lungo rue de la Préfecture un mattino freddo di inizio febbraio, è la sagoma di un bue in aria. Sospesa, in ferro battuto, è un’insegna antica risalente forse al 1728. Quando, secondo la prima traccia di questo ritrovo storico, un certo Jacques Studer, macellaio, riceve dal principato vescovile di Basilea, l’autorizzazione a vendere del vino all’insegna del bue. Un bovino è anche al centro del dipinto murale agreste postcubista che ricopre l’intera facciata dell’Hotel du Bœuf (422 m) a Delémont. Al suo fianco, una contadina con falcetto e grano in grembo e un contadino con baffi e basco che affila la falce. Agli angoli, in basso, una gallina e una carriola rovesciata. In cima, due isolate fattorie triangolari stilizzate al punto da sembrare ufo, luna, nuvole. L’opera realizzata nel 1960 dal pittore-ferroviere Pierre Michel (1924-2009), nell’impatto con il passante senza fretta, è rafforzata, al pianterreno, dalle due vetrate decorate all’acido. Fregi floreali con fogliame si evolvono – lasciando lo spazio per due scritte: restaurant, brasserie – ricamando con grazia, il vetro, come brina. Ossobuco c’è scritto, con il gesso, sulla lavagnetta appesa all’entrata. Monumentale, un tempo, qui, pare, il puré di patate della signora Ida Ludwig-Bürki (1921-2019), conosciuta da tutti come «la Ida du Bœuf». Il figlio Herbert, seduto lì in sandali allo Stammtisch a chiacchierare con due clienti, continua la gestione famigliare di questo bistrò popolare iniziata nel 1931 con i suoi nonni, Christian e Ida Bürki, la prima Ida «del Bœuf».
Solo «le Bœuf», è così infatti che tutti chiamano questo bistrò rustico di tradizione socialista per via del nonno Christian, deputato socialista al Gran Consiglio bernese. E dove poco meno di due mesi fa, hanno festeggiato fino a tardi la prima consigliera federale giurassiana della storia del più giovane cantone svizzero. Ma qui in realtà se ne vedono un po’ di tutti i colori. Sette tavoli rettangolari grandi, in frassino laccato, i piedi in ghisa. Due stamm rotondi, due panche in corrispondenza dei due tavoli-nicchia all’entrata, vicino alle finestre ricamate con l’acido fluoridrico. Una delle due panche, a sinistra, continua per tutto il locale. Mentre trentotto sedie da bistrò di campagna, su una delle quale sono seduto a sorseggiare un caffè e sfogliare distrattamente «Le Quotidien jurassien». Un vecchietto in training, appena arrivato dall’entrata secondaria di place Roland Béguelin, ordina «un galopin» poi però cambia subito idea guardando l’orologio e affermando riflessivo che «sono già le dieci e venti», perciò (sottintendendo che l’ora dei birrini è passata) prende un rosé.
«Febbraio è un piccolo mese e poi c’è il carnevale» dice fiducioso Herbert Ludwig ai suoi compagni di tavolo. Il signore del rosé parte in quarta, racconta di un capriolo finito nel cimitero di Courtételle a mangiare le corone funebri recenti. Aveva proprio ragione Georges Pélégry, detto Jojo, poeta sconosciuto dei dintorni, scrivendo tra le pagine di Les dits de Saint-Marcel (1989), a proposito del Bœuf: «Una taverna per surrealisti, il nostro Cabaret Voltaire». Sopra il mio tavolo, un quadretto raffigura, distorta un po’ alla Soutine, la facciata fuori dal comune di questo luogo alla buona. Dalla firma risalgo a uno degli ultimi veri pittori bohémien di Montmartre, impressionista populista nato in Normandia e di passaggio, per sei anni, in Svizzera: Roland Dubuc. Ignoto è invece l’autore dell’affresco verso l’uscita secondaria ma usata spesso, di fronte alle toilettes: un altro bovino in un ovale, attorniato di fiori. Su quasi tutti i tavoli, foglietti con i nomi di chi ha riservato per pranzo.
Apprendistato come cuoco al prestigioso Grand Hôtel Les Trois Rois di Basilea, classe 1950, Herbert Ludwig, baffetto a manubrio e t-shirt, propone una cucina semplice, alla mano, sincera: le sue specialità sono il cordon bleu con rösti o frites allumettes, l’insalata di cervelat, la fondue. Affiancato dalla moglie Claudine e il figlio Renaud in cucina, una sala da pranzo sopra, per banchetti o altro, otto camere ancora più sopra, riesce a mantenere intatta, in questo locale, l’atmosfera dell’universo bistrotiero che sta svanendo quasi del tutto. Salta fuori ora, in una storia allo stamm, un cervo bianco in giro da secoli non ho capito dove.