Sulla strada, all’altezza di Bondo, non può non saltare agli occhi un grande albergo con due braccia aperte ad angolo ottuso innestate in una torretta. È l’Hotel Bregaglia a Promontogno (825 m) davanti al quale scendo dalla posta un pomeriggio d’inizio autunno. Color gelato alla crema, percorso nell’avancorpo d’entrata, dal rosso pompeiano delle fasce verticali decorate a sgraffito con motivi neorinascimentali. Sulla soglia mi stupisce una ghirlanda di lucine intermittenti al collo del putto cresciutello che tiene in mano un lampadario d’ottone, in cima alla poltrona al centro della hall pervasa da un cha cha cha.
Il Bregaglia apre i battenti nel luglio 1877: idea dello sfortunato albergatore Teodoro Scartazzini (1848-1899) realizzata dall’architetto vicentino Giovanni Sottovia (1827-1892) che ha lasciato tra l’altro tracce nelle case eclettiche dei pasticceri poschiavini. Ma per rimanere negli immediati dintorni e nel contesto alberghiero, lo zampino di Sottovia lo si rintraccia nell’ex Hotel Roseg di Pontresina (1870) che mostra la stessa struttura del Bregaglia ispirata dall’apripista regionale degli hotel a due ali ad angolo ottuso, l’Hotel Bernina a Samedan (1865). Albori del turismo in alta Engadina proiettati nella bassa Bregaglia. Questo hotel storicista che riassume nel nome tutta una valle non è però mai andato a gonfie vele.
Da sempre aperto solo d’estate, era più che altro un intermezzo di viaggio tra il lago di Como e l’Engadina. Il Bregaglia di Promontogno, ex frazione dell’ex comune di Bondo reclamizzata all’epoca come stazione climatica, doveva dunque accontentarsi di essere luogo di sosta per acclimatarsi all’Engadina dell’indomani. Eppure «come un masso erratico d’epoca remota sembra resistere al perenne mutare delle cose» si legge nel libro dedicato al Bregaglia – Hotel Bregaglia, Storia e vita di un albergo (2009) a cura di Isabelle Rucki e Stefan Keller – dove si sottolinea che il mancato successo economico non ha permesso grandi stravolgimenti e perciò fortunatamente molto è rimasto immutato. Come la curiosa poltrona ottagonale in pelle bicolore mocca-verde bottiglia, ornata di statua agghindata per l’occasione dal dj Le Mox.
I miei programmi di perlustrazione indisturbata o di leggere Joseph Roth su una poltrona di velluto di un vecchio hotel deserto vanno a farsi benedire: dopo l’epocale banchetto funebre del 1892 per la baronessa Castelmur, oggi c’è un matrimonio. Accetto di buon grado l’imprevisto. Del resto il viavai di cameriere accresce l’atmosfera da Grand Budapest Hotel in salsa bregagliotta. In un angolo c’è un pianoforte con su un’aquila imbalsamata. Un invitato con cravattino balla sbattendo le braccia stile volatile. Dal primo salone spuntano molte corna, sono i trofei di caccia di Adriano Previtali, l’attuale proprietario.
Qualcosa comunque negli anni Sessanta è cambiato, contrappunti da prendere un po’ con ironia: il pavimento di linoleum a scacchi copre quello di pietra, un color fragola acceso alle pareti contrasta la delicata tonalità maionese delle porte in legno, mentre un soffitto posticcio spezza lo spazio di luce naturale del cavedio esagonale perduto. Il danno però è riparato, in parte, con un’opera psichedelica di Jules Spinatsch campionata dagli affreschi sul soffitto del palazzo Castelmur a Coltura. Intitolato Himmelnomal (2010), questo celeste drappeggiato a righe d’oro è il segno rimasto delle mostre annuali curate dal gallerista Luciano Fasciati. Arriva la torta, una con la giacca del marito fa la toreador, mi rintano in camera.
La tromba delle scale in granito con corrimano di legno e ringhiera in ferro battuto, posta all’ingresso, si apre teatrale accompagnata dal magistrale finto marmo delle mura. Tinte pop tipo giallo acido e rosa phlox, nei corridoi, fanno invece allegramente a pugni con le porte color meringa delle camere. La venticinque è un salto indietro nel tempo. Lettuccio in ciliegio, balconcino in beola, ma soprattutto le croci vegetali color prugna su sfondo lavanda, ripetute a oltranza con l’uso di mascherina e pittura alla caseina, mimano a meraviglia la carta da parati. «Sono ungheresi» mi dice a cena la cameriera a proposito delle corna enormi dei cervi. Ronfata atavica, anche grazie alla Maira che scorre impetuosa qui a fianco prima d’incontrare la Bondasca, laggiù.
Dopo colazione ispeziono i saloni al primo piano dove dalle finestre entra il fondovalle. Decorazioni floreali alle pareti pistacchio, lampadari originari, parquet a spina di pesce. Le sedie horgenglarus in noce lucido a gambe all’aria sui tavoli sembrano annunciare liete il letargo. Aperto a fine maggio, chiude infatti ai primi di ottobre. Lassù troneggia il pizzo Badile spolverato stanotte di neve. Seduto fuori, sulle panchine a onda in tinta con i gerani affacciati sul piazzale alberato, aspettando il Palm Express, ecco che arriva adagiato sul rimorchio in legno di un mini-trattore, un bel cervo con foglie di castagno in bocca.