L’Europa: ieri, oggi, forse domani

/ 04.02.2019
di Franco Zambelloni

Capita, talvolta, di leggere pagine di un passato lontano che sembrano parlare del nostro presente. Ad esempio, questa: «Non vi sono oggi più Francesi, Tedeschi, Spagnoli, perfino Inglesi, checché se ne dica; non vi sono che degli Europei. Tutti hanno gli stessi gusti, le stesse passioni, gli stessi costumi, perché nessuno è stato nazionalmente formato da particolari istituzioni. Tutti, nelle stesse circostanze, faranno le stesse cose; tutti si diranno disinteressati e non saranno che canaglie; tutti parleranno del bene pubblico e non penseranno che a se stessi. Non hanno ambizione che per il lusso, passione che per l’oro: sicuri di avere con l’oro tutto ciò che li tenta, si venderanno al primo che vorrà pagarli. [...] Purché essi trovino denaro da rubare e donne da corrompere, si sentono ovunque in patria».

Era l’anno 1771 quando il ginevrino Rousseau, ormai da tempo residente a Parigi, scriveva questo duro attacco contro i popoli europei (escludendone la Repubblica della sua Ginevra). La severità moralistica di Rousseau è probabilmente eccessiva, anche per i suoi tempi: ma che cosa direbbe, oggi, se potesse osservare l’uniformità dei costumi, il livellamento dei gusti, l’esplosione dell’avidità di denaro e la completa emancipazione sessuale? Il conformismo, soprattutto, è oggi certamente molto più diffuso in quella che, almeno economicamente, è ormai diventata un’Europa unita, dove, alle tante mode condivise, si aggiunge addirittura una moneta unica.

Ma c’è un aspetto della polemica rousseauiana che merita particolare attenzione: il filosofo non trova più, nei Paesi che condanna, una caratteristica propria, quello che nel Settecento si chiamava génie o esprit des nations e che oggi definiremmo identità nazionale. Dunque, iniziava allora un processo che si è poi prolungato fino a noi, sia pure con momenti di retromarcia: il Romanticismo e l’emergere dei nazionalismi otto e novecenteschi hanno segnato queste temporanee inversioni di marcia. Ma poi, dopo il secondo conflitto mondiale, l’unificazione è ripresa e la progressiva globalizzazione sembra avviata ad abbattere le differenze non solo tra Stato e Stato, ma addirittura tra continente e continente.

Indubbiamente ci sono molti aspetti positivi in questa progressiva unificazione mondiale; ma ci sono anche scompensi e incognite che ne derivano. L’uomo, come già sapeva Aristotele, è un «animale sociale»: è fatto per vivere in comunità. Ma può esistere una comunità di miliardi di persone? L’evoluzione culturale e tecnologica procede a ritmi incalzanti; al contrario, l’evoluzione del cervello e degli istinti umani segue i ritmi biologici, estremamente lenti. L’«animale sociale» è fatto per vivere in piccole comunità di vicinanza reciproca: studi recenti sulle tendenze morali innate nell’uomo mostrano che un individuo è naturalmente morale, solidale e corretto verso il suo «prossimo» – ossia, letteralmente, con le persone vicino alle quali vive e con le quali è in confidenza; nei confronti di un anonimato sconosciuto questa tendenza tende a spegnersi. E nel processo di globalizzazione l’anonimato si espande, ti circonda, ti avvolge. Non è dunque un caso che l’attualità faccia registrare segnali di reazione: l’erezione di muri – reali o giuridici – sembra una tentazione diffusa, un desiderio di separazione crescente.

È comprensibile: ogni identità – individuale o collettiva – si regge sul confronto con l’«altro» e sulla differenza che divide e distingue. Ma i muri non bastano certo a costituire un’identità nazionale. Come per un individuo, così anche per una nazione ciò che la identifica è la continuità della sua storia: la tradizione. Ossia, l’insieme di storia, lingua, cultura, usanze – tutto un passato che si consegna di mano in mano, da una generazione all’altra: senza questa consapevolezza del passato non c’è identità, né di una persona, né di un Paese. Cancellata la tradizione, si sfalda anche la comunità; e allora l’anonimato, il conformismo, l’individualismo e la solitudine prevalgono. Senonché, conservare una tradizione è possibile solo se persiste la volontà di appartenere a una comunità: come scriveva nell’Ottocento Ernest Renan, una nazione è un «plebiscito di tutti i giorni». Nel presente frenetico e nel livellamento dei costumi che ora viviamo la tradizione tende a scivolare nell’oblìo; e allora, forse, le parole che Rousseau scriveva quasi duecentocinquant’anni fa possono suonare non solo come un’accusa contro il suo tempo, ma come una profezia del nostro.