Ho sorriso l’altro giorno quando mi sono sorpresa a riflettere sul mondo del lavoro di oggi, sulle sue dinamiche, sui rapporti umani che lo caratterizzano e lo abitano. Ho sempre pensato che l’atmosfera positiva fosse un elemento fondamentale, non solo per stare bene con se stessi e con gli altri ma anche per dare il massimo nella propria professione. Sono da sempre convinta che più i rapporti e le relazioni umane funzionano, più elevate sono le possibilità per un gioco di squadra di alto livello nel quale si suda, si gioisce e si fallisce insieme. Un atteggiamento di mutuo rispetto, di stima reciproca in un contesto in cui sono benvenute le idee e il confronto, in cui il dissenso e il contrasto sono vissuti come elementi costruttivi e di crescita, è virtuoso per tutti. Molto, naturalmente, dipende dall’ambito in questione, dal tipo di lavoro, dalla posizione che si occupa. Molto dipende dalle persone e dalle loro competenze.
Poi ho pensato a come potrà evolvere questo aspetto nel prossimo futuro quando molti dei lavori ripetitivi e meccanici saranno svolti dall’Intelligenza artificiale, molti uffici saranno ripensati e trasformati grazie alla tecnologia, molte dinamiche lavorative cambieranno e molte persone perderanno il lavoro. Si dice che nell’era dell’IA, dell’automazione e della robotica assisteremo ad una progressiva disumanizzazione, a una trasmutazione antropologica, si dice pure che comunicazione, empatia e collaborazione saranno centrali.Mi chiedo, in una previsione di cambiamento e di incertezza, in un mondo che sarà popolato di robot, macchine e internet delle cose, quanto davvero saremo capaci di creare, coltivare e valorizzare, le relazioni umane.
Quanto saremo bravi a mettere in campo le nostre qualità umane. Già oggi, se pensiamo ai millennials, sono così digitali da non essere in grado di instaurare una comunicazione a voce ma solo uno scambio fulmineo con sconosciuti in pochi caratteri scritti. Jonathan Safran Foer nel suo romanzo Eccomi sottolinea come l’uomo non abbia bisogno solamente di essere connesso ma anche di contatto, attenzione e empatia. Sarà dunque sempre più centrale ricercare queste competenze allenando sul posto di lavoro l’abilità di saper comunicare, entrare in relazione, preoccuparsi del prossimo.A questo proposito è appena uscito un volume interessante The War for Kindness: Building Empathy in a Fractured World di Jamil Zaki, direttore del Laboratorio di neuroscienze sociali alla Stanford University.
A suo avviso, l’abilità di strutturare i nostri luoghi di lavoro, le scuole, gli spazi pubblici, i media persino, l’abilità di aumentare l’interazione tra persone con background diversi, incoraggia il rispetto e la stima tra loro. Questo, in un quadro più ampio, può aiutare le società a superare quei trend che oggi vediamo acuirsi come la polarizzazione politica, i sentimenti di razzismo, la rabbia anti-migranti e le divisioni culturali. Scrive Jamil Zaki che l’empatia è la nostra abilità di condividere e comprendere i sentimenti dell’altro, una sorta di supercolla che connette le persone e sostiene la cooperazione e la gentilezza. Gli psicologi e i neuroscienziati misurano l’empatia in molti modi, ad esempio, chiedendo alle persone quanto importa loro degli altri, testando quanto accuratamente decodificano le esperienze altrui e esaminando la sovrapposizione nelle loro attività mentali quando provano piacere nel vedere gli altri felici.
Due sono gli elementi che il direttore mette in evidenza e dovrebbero interessarci. Il primo che secondo una ricerca, rispetto al passato, oggi nella nostra società viviamo un importante calo dell’empatia. Oggi, rispetto al 1979, il 75% in meno delle persone è empatico e questo in un contesto caratterizzato dal sorgere delle tecnologie online e dall’aumento della polarizzazione.
Il secondo punto, e questo ci dà speranza, è che con l’empatia non soltanto si nasce, l’empatia si può anche imparare e accrescere. E allora non resta che darci da fare se non vogliamo vivere in una società triste e arida. Insegniamo ai leader di oggi e di domani a essere empatici affinché in un futuro automatizzato saremo davvero in grado di fare la differenza, di essere umani nel vero e più profondo senso della parola o tra noi e le macchine ci sarà davvero poca diversità.