La prima cosa, appena arrivato a Rothenbrunnen in tarda mattinata, è mettere le mani a coppa per raccogliere l’acqua della fontana che dà il nome al luogo. Toponimo (che mi ricorda un po’ Acquarossa) partorito dal rosso ruggine-sangue lasciato qui, un secolo dopo l’altro, dall’acqua curativa sulla pietra scavata dentro la fontana. Una fontana rossa, sulla sponda destra del Reno posteriore che scorre lento in mezzo alla vallata pianeggiante – tagliata al contempo dalla nauseante autostrada atredici – nota come Domleschg. Dalla quale sgorga, a metà strada circa tra Thusis e Bonaduz, l’acqua minerale ferruginosa che bevo ora a sorsate. Sotto la roccia, a precipizio, che domina e ripara questo paesino di trecentoquattro anime. Con una clinica psichiatrica, un ex kurhaus, in funzione dal 1888 al 1922 la cui sorgente è menzionata già due secoli prima dal medico e naturalista Johann Jakob Scheuchzer, un impianto di piscicoltura all’avanguardia. Più due rovine di fortezze, conosciute come Hochjuvalt e Innerjuvalt, che vigilano lassù, a strapiombo. E sulla facciata di una casa cinquecentesca, gli affreschi di Hans Ardüser (1557-1618 ?): pittore ambulante dallo stile inconfondibile per il quale mi sono messo in cammino stamattina.
Due minuti neanche, camminando a passo distratto sulla Dorfstrasse, ed ecco casa Tscharner, risalente al 1546. In pieno sole, alle undici in punto, scandite dal rintocco delle campane della chiesetta riformata non lontana, sulla facciata ondulata color crema, appaiono un elefante rosa scuro con in groppa qualcosa e un curioso San Giorgio e il drago. Maestro di scuola nato a Davos e morto a Thusis, lettore vorace, appassionato di catastrofi naturali e cronaca nera, instancabile camminatore, amante della cucina, forte bevitore, la figura pantagruelica di Ardüser l’ho incontrata tra le pagine del secondo volume di Svizzera insolita (1970). «Giubila con il pennello, cambia d’idea, di scala, mischia a personaggi mitologici e a personaggi cristiani la gente di casa, aggiunge fiori e animali impossibili: un elefante con la proboscide ritorta come la colonna di un altare barocco, un dragone con la coda attorcigliata, un San Giorgio in tenuta da mercenario svizzero, uccelli e alberi esotici di sua invenzione» scrive Louis Gaulis. Ginevrino nato a Londra e morto a Tiro, in Libano, durante una missione per la Croce Rossa, Louis Gaulis (1932-1978), autore di teatro e attore, coglie in pieno il talento inimitabile di Mastro Hans Ardüser.
Tre dei soggetti citati che lo hanno colpito, li ritroviamo proprio qui, sotto le finestre al primo piano. Cerco la posizione giusta, l’angolatura migliore, visto il sole, per scrutare come si deve l’elefante difforme che si comporta come un tricheco. Per atteggiamento e postura, mentre le zanne sono identiche. Solo all’incontrario, vale a dire nella direzione da elefante, all’insù, ma improbabili visto che partono verticali dalla bocca diventando così dei canini inferiori sproporzionati. Tra le zanne, passa la proboscide, intrecciata come una colonna tortile e spunta una lingua bluastra da mostro. Le orecchie sembrano quelle abbassate di un coniglio. Zaffate distensive di letame provengono dalla fattoria accanto, una in tenuta rosa fucsia da corsetta passa via, un tossico di paese mi chiede una sigaretta. In groppa, l’elefante rosa di Rothenbrunnen (623 m) porta una specie di pavillon stile belvedere-gloriette, dove fuoriesce la tromba di un personaggio invisibile. A sinistra, in un riquadro impallidito, si vedono quindici mele di cui una, colta da Eva. Più su altre scene bibliche come l’ultima cena, Giona e la balena, ma non mi sembra certo la mano di Ardüser che sotto la lunga coda capricciosa del drago, in un cartiglio, data i suoi dipinti: 1584. Proprio lì a fianco, a pochi centimetri di distanza dall’elefante rosa ciclamino che si crede un tricheco e si dà quasi arie da mammut, possiamo ammirare ora, ancora meglio di prima perché è cresciuta un po’ d’ombra, tutta la «visione mitico-burlesca del mondo» come la cristallizza Nicolas Bouvier in L’art populaire en Suisse (1991). Un dragone nella classica posa remissiva a pancia in su, sul quale a cavalcioni, con tocco naïf, c’è un mercenario dai pantaloni alla zuava e barba rossa che rimpiazza il solito San Giorgio dell’iconografia tradizionale.
Mescola le carte, per meravigliare, il nostro Mastro Ardüser. Dentro una casa patrizia di Andeer, per esempio, uno struzzo – che sembra un giocattolo tipo cavallo a dondolo – della taglia di una giraffa è al guinzaglio di un buffo signore piccoletto. E a rimettersi in viaggio, tra un’oretta, sulla facciata di una casa a Filisur troveremo un cammello ridimensionato alla stessa grandezza di un uccello di fantasia. Ma non corriamo troppo, qui l’immaginazione di Ardüser è ancora da esplorare passo per passo. A guardare con attenzione, il cappello si scopre essere quello di uno spazzacamino, il volto forse è il suo che guarda i passanti. E soprattutto, almeno per me, la testa del drago, infilzato dalla lancia nella gola, è quella di un orso con il naso come Pluto. Il corpo gigantesco del drago-orso è cosparso di squame e in certi tratti assume il rossiccio delle triglie. Il finale della coda attorcigliata è un colpo di tacco dello spirito. A un certo punto dei suoi ghirigori, avvolta nella luce tardo-mattinale verso la fine di febbraio, la coda si intreccia in un magnifico bretzel.