Lebowitz, maîtresse-à-penser

/ 08.02.2021
di Aldo Grasso

Dopo la serie Pretend it’s a City, tutti a chiedersi: ma chi è Fran Lebowitz? Nata nel New Jersey, a Morristown, nel 1950, la Lebowitz è una delle più popolari autrici e umoriste americane, definita una moderna Dorothy Parker. «La verità è che di cose su Fran Lebowitz – ha scritto Francesca Pellas su «Rivista Studio» – se ne potrebbero dire tremila: da quanto fuma a quanto parla, dal cameo che “Marty” le fece fare in The Wolf of Wall Street, al fatto che non ha cellulare né computer e scrive a penna... Si potrebbe raccontare della sua idiosincrasia per i turisti, poiché proprio da quella viene il titolo del documentario: Pretend it’s a City è infatti la frase che vorrebbe gridare ai turisti, troppi, che invadono New York, quando incrociandola per strada hanno la malaugurata idea di chiederle indicazioni. Fate finta che sia una città. Non è un parco giochi ma una vera città».

A volte, a essere politicamente corretti si rischia il ridicolo, specie se si devono fare i conti con la Lebowitz. Va bene definirla scrittrice (anche se da un po’ di tempo si dice vittima della pagina bianca, di un blocco scritturale); va bene definirla umorista (lo è), ma con maîtresse-à-penser si sfiora l’insulto. Eppure, se c’è una maestra del pensiero questa è proprio l’ex columnist di «Interview», la famosa rivista di Andy Warhol, una delle prime donne a insinuarsi nei salotti bene del Greenwich Village diventandone la massima esperta, una influencer quando non esistevano le influencer.

Il regista Martin Scorsese ha realizzato due opere dedicate a lei, il film La parola a Fran Lebowitz e la docu-serie Fran LebowitzUna vita a New York girata nel 2020 e uscita su Netflix, titolo italiano ben meno efficace dell’originale, che era Pretend it’s a city.

La conversazione avviene in alcuni luoghi simbolici della città, tra cui un elegante club all’antica e il Queens Museum che contiene il famoso modellino della metropoli ideato da Robert Moses. Ma New York è soprattutto sulla bocca della Lebowitz, perché possiede il raro dono di trasformare ogni parola in immagine, perché Manhattan rivive attraverso gli occhi e la sensibilità dell’intervistata: si vanta di non avere un cellulare e di conservare il raro dono di guardare tutti i newyorkesi che, ogni giorno, rischiano di investirla con la macchina perché non riescono a staccare gli occhi da quegli aggeggi infernali che regolano le loro vite. A Scorsese, che ride a crepapelle a ogni sua battuta, ricorda la loro sostanziale differenza: «Mi piacciono le feste, vado a molte più feste rispetto a te. Ed ecco perché tu ha fatto un mucchio di film mentre io ho scritto pochissimi libri». E poi: «Tutti si lamentano che è impossibile vivere a New York (caro vita, rumori incessanti, case mal costruite…), ma siamo otto milioni, come facciamo non lo sappiamo». E poi ancora, rispondendo alla domanda su quale forma d’arte sia più carente in questo momento: «Le arti visive: una sorta di racket. Vai a un’asta, tirano fuori il Picasso, silenzio di tomba. Poi battono il prezzo con il martello: applauso. Viviamo in un mondo in cui si applaude al prezzo, non al Picasso! Ho detto tutto».

C’è un aspetto molto curioso della sua vita professionale. La Lebowitz su «Interview» curava due rubriche: una sui film brutti (civetteria che poi è esplosa anche in altri paesi) e una di mondanità newyorkese: I Cover the Waterfront. A volerla fu Bob Colacello, collaboratore di Warhol e deus ex machina della rivista, che adorava il suo humour caustico. Warhol invece non la trovava affatto divertente. È lui stesso ad ammetterlo nei diari: «Bob (Colacello) mi ha mostrato una recensione che il libro di Fran Lebowitz ha ricevuto sul “New York Times” da John Leonard, e non riesco a capirla. La sua scrittura è divertente? Una giornalista che conosciamo le ha fatto una lunga recensione sul “Sunday Times” e ora John Leonard e io… le sue cose – tutte le critiche e le lamentele – semplicemente sono altro rispetto al mio senso dell’umorismo. Non so qual è il punto. Eppure, Bob voleva dimostrarmi che le altre persone non si sentono come me al riguardo, che lei è una risorsa per “Interview”».

«I libri – ha scritto Simonetta Sciandivasci sul «Foglio» – sono per lei la cosa che più si avvicina a un essere umano», «e infatti, Martin, non so tu, ma io proprio non so gettarli via, nemmeno se sono brutti, nemmeno se li ho detestati, perché mi sembrerebbe di gettare via un essere umano, per quanto ce ne siano diversi, di esseri umani, che mi piacerebbe gettare via, ma capisci cosa voglio dire». Certo che capisce, Martin Scorsese. Che infatti le fa poi dire: «A cosa servono i soldi, se leggi?» Insomma, se leggi non hai il tempo di spendere».

Sarà per questo che da anni indossa solo jeans Levi’s modello 501.